Sono trascorse ormai cinque settimane dalla chiusura delle urne e sulla scena politica italiana regnano sovrane confusione ed incertezza.

Che a monte la colpa di questa situazione sia di Ettore Rosato e della sua inqualificabile legge elettorale è risaputo perfino dai sampietrini di Piazza del Popolo.

A rendere però ogni giorno più tortuoso e travagliato il cammino verso la soluzione della crisi concorrono le irragionevolezze e le irresponsabilità di tutti i protagonisti del teatrino politico.

Si è costretti ancora una volta a prendere atto che ad essere trascurata e mortificata dal menefreghismo della  politica, con la “p” minuscola, è la volontà del Popolo Sovrano che ha chiesto con forza, con il voto del 4 marzo, il radicale rinnovamento nel governo del Paese.

Sarebbe doveroso che tutti insieme, a cominciare dal Capo dello Stato, facessero propria, senza tentennamenti, la istanza di cambiamento espressa  dagli elettori, e soltanto da questa istanza si sentissero vincolati nel cercare la soluzione alla crisi di governo.

Basterebbe, d’altra parte, recuperando almeno un po’ di intelligenza politica e di attenzione per le difficoltà del Paese, che i principali protagonisti riflettessero su alcuni dati di fatto:

1. Pressoché 17 milioni di elettori, vale a dire uno su due, hanno concentrati i loro voti su due sole forze politiche, le uniche che gli italiani considerano fautrici di un possibile cambiamento (M5S = 32,08% - Lega = 17,37%);

2. Il PD, dopo aver governato negli ultimi cinque anni con Renzi prima, e Gentiloni poi, è stato solennemente bocciato nelle urne;

3. Poiché incompatibile con la precisa domanda di cambiamento, non dovrebbe neppure essere presa in considerazione la proposta-pretesa di Berlusconi di partecipare con FI alla formazione del nuovo governo. Un esecutivo che vedesse la partecipazione di FI, dopo che Berlusconi ha già governato a più riprese e per oltre venti anni, olezzerebbe di muffa.

4. Il Paese non può permanere a lungo in una situazione di blocco senza compromettere la modesta ripresa in atto, ma soprattutto senza rischiare di trovarsi alla mercé della speculazione dei mercati con pesanti conseguenze anche sui conti pubblici. “L’Italia non può permettersi una paralisi prolungata” sostiene oggi in un suo editoriale il Financial Times.

5. Qualora si dimostrasse non attuabile un governo di coalizione tra le sole due formazioni fautrici del cambiamento, ogni soluzione diversa sarebbe vissuta dall’elettorato come un nuovo affronto della classe politica. Sarebbe perciò auspicabile che il Capo dello Stato, prima di mettere mano ad un governo-pateracchio, tecnico o di scopo che sia, si preoccupasse di sollecitare le Camere affinché in tempi brevi predispongano una nuova legge elettorale, per un immediato ritorno alle urne.

Si tratta di fattori oggettivi, dai quali non dovrebbe prescindere qualsiasi ipotesi di lavoro per la formazione del nuovo governo.

Ora, però, aldilà delle liturgie costituzionali che Mattarella dovrà rispettare convocando, ad esempio, il secondo giro di consultazioni che è prevedibile non abbia miglior sorte del primo, a condizionare i tempi subentrano anche gli interessi di bottega delle diverse forze politiche.

Ad esempio il PD, alle prese con sfaccettate incompatibilità intestine, di certo non uscirà allo scoperto prima del 21 aprile quando si riunirà l’assemblea nazionale.

La Lega, dal canto suo, prima di assumere una responsabilità di governo, potrebbe essere interessata a conoscere il risultato delle elezioni regionali che si terranno in Molise (22 aprile) ed in Friuli Venezia Giulia (29 aprile).

A questo punto è evidente che se il Capo dello Stato confermasse un atteggiamento di attesa nella speranza che siano le forze politiche a trovare il bandolo di questa aggrovigliata matassa, la crisi si risolverebbe solo... alle calende greche.

Ed a pagare il conto di questa irresolutezza sarebbero ancora la classi più deboli ed emarginate che, con il loro grido di aiuto, hanno contribuito a far fermentare la richiesta di cambiamento.