(2 parte)
Ci dobbiamo chiedere perché le vite di moltissimi cittadini di questo strano Paese hanno spesso subito pesanti interferenze o sono state crudelmente travolte per tragiche (e spesso solo apparenti) fatalità. Solo quando andiamo a sfogliare e a leggere con attenzione quanto è stato scritto nelle perizie, affermato nelle testimonianze, sintetizzato nelle sentenze allora ci si accorge che le vittime divengono vivamente presenti nelle nostre coscienze, e nel silenzio della nostra interiorità emergono gli echi di quelle sofferenze e dell’ingiustizia subita.
“L’incidente” della Moby Prince mi lasciò tanti dubbi, a quel tempo mi chiesi come fosse stato possibile che una nave passeggeri appena uscita da un porto potesse scontrarsi con una petroliera alla fonda e che i soccorsi si concentrassero esclusivamente sull’Agip Abruzzo e i passeggeri del traghetto venissero lasciati morire bruciati o soffocati dopo ore di terrore e speranze di salvezza deluse.
Tra il materiale che ho visionato, mi è capitato un breve filmato che mi ha colpito profondamente: un padre stava riprendendo con il suo cellulare la moglie e i due suoi figli di pochi anni che si rincorrevano gioiosi, all’improvviso si verifica la collisione e gli cade il cellulare di mano e poi…. più nulla. Quelle vite sembrano evaporate all’istante ma quelle creature innocenti mi rimarranno sempre impresse nella mia memoria interiore.
Il comandante della Moby Prince non riuscì a comunicare con la Capitaneria di Livorno perché le sue trasmissioni furono disturbate quasi nell’immediato; come mai l’Agip Abruzzo, pur usando lo stesso canale, riuscì ad avvertire dell’avvenuta collisione e fornire la sua posizione? Come mai i passeggeri che erano sicuramente muniti di cellulare non chiamarono i loro parenti per avvisarli di quanto stava accadendo? Ascoltando il Mayday della Moby è chiarissimo che vi fu un disturbatore di frequenze che isolò il traghetto.
Per fare il punto di quanto avvenne realmente quella notte occorre individuare quante e quali imbarcazioni si trovavano sia nel porto di Livorno e nella limitrofa fonda e cosa stessero facendo ma per fare giustizia occorre individuare coloro che decisero di lasciare morire 140 innocenti negando loro ogni soccorso.
Sono convinta che il perché risiede nei traffici in entrata e in uscita che si stavano svolgendo in quella notte nel porto di Livorno.
A questo punto occorre fare una breve panoramica della situazione internazionale di quel periodo, non per giustificare ma per renderci conto di quanto la vita interna del nostro Paese sia pesantemente condizionata da comportamenti e decisioni imposti da entità stranier per loro esclusivo interesse.
Come ho già detto sul suolo toscano vi erano importanti depositi di armi e munizioni statunitensi, dall’agosto del 1990 al febbraio del 1991 si combatté la guerra del Golfo quindi sia prima che dopo il periodo di aperto conflitto il porto di Livorno fu un crocevia per un intenso traffico di armi di vario genere e dimensioni (esplosivi, munizioni e addirittura carri armati) diretto in Medio Oriente.
Quando si tratta di armi, per i trafficanti di qualsiasi tipo, è tassativo non avere dei testimoni scomodi, anche involontari, per questo alcuni sono stati eliminati con incidenti stradali debitamente provocati o finte rapine finite male. Ormai si può affermare che gli omicidi mirati, stragi programmate ed altro sono strumenti di potere per destabilizzare politicamente ed economicamente i Paesi soprattutto emergenti e ricchi di materie prime o in posizioni strategiche come l’Italia, lo possiamo ben dire noi che ne siamo stati vittime inermi per decenni e che in altre forme lo siamo ancora.
Considero volutamente fuorviante tutta l’impostazione data sin dall’inizio alle indagini, e questa situazione è stata causa di delusione per molti cittadini e ha rafforzato in me la sfiducia nelle istituzioni e la convinzione della subalternità del nostro Paese nelle relazioni internazionali, in particolar modo nei rapporti con i nostri alleati.
Mi domando che valenza poteva avere affidare una perizia per stabilire le posizioni delle due navi entrate in collisione quando all’armatore della Moby Prince le compagnie di assicurazione con sede in un paradiso fiscale liquidarono 20 miliardi su un danno quantificato di 7 miliardi e i periti dichiararono in atti che non vi erano elementi per una formula certa ma solo ipotetica ai quesiti posti: quella notte il sistema satellitare sia militare che civile che monitorava la zona forse era in manutenzione? O forse fu offuscato dalla famosa nebbia (che non c’era).
La petroliera era alla fonda dalle ore 22.00 del 9 aprile, sicuramente la Capitaneria aveva disposto e registrato la sua posizione con precisione come d’obbligo e l’avrà registrata da qualche parte.
Appena fuori dai porti vi è una zona di transito utilizzata per l’arrivo o per la partenza delle navi nel/dal porto, un “cono” di mare nel quale nessuna nave o natante può circolare, pescare o tanto meno sostare: è improbabile che la petroliera avesse ricevuto disposizioni per ancorare in quella zona.
Il Moby Prince lasciò il porto di Livorno con a bordo il comandante pilota che condusse il traghetto in mare aperto in un punto “sicuro” nella zona di transito, sicuramente non vi era nebbia o altro ostacolo alla navigazione altrimenti non avrebbe lasciato la nave. Scese dalla nave alle 22.15.
Per anni la causa del disastro fu attribuita alla presenza di nebbia, che non avrebbe consentito la visuale al comandante del Moby Prince Ugo Chessa.
Grazie alle indagini volute dalla famiglia Chessa e proseguite poi con i lavori delle Commissioni parlamentari d'inchiesta, oggi si è appurato che non c'era nebbia. Ma questo era già scritto chiaramente nel bollettino dell'Avvisatore Marittimo Romeo Ricci, che registrò la perfetta visibilità e assenza di nebbia. “Ci sono voluti anni per smontare la tesi, forse finanche troppo comoda per qualcuno, del presunto errore umano del comandante Chessa e della presenza di nebbia”.
Inoltre I Prof. Ing. Antonio Scamardella e il Dott. Sebastiano Ackermann, nella loro relazione hanno portato ad una serie di ricostruzioni basate su ipotesi ma che purtroppo non potranno mai essere suffragate da riscontri oggettivi. “Non essendovi quindi alcun dato certo e registrato sulla rotta seguita dal MOBY PRINCE – questa è una balla perché la rotta è prestabilita prima di uscire dal porto in accordo con il comandante della nave, il comandante pilota e la Capitaneria - si è provato a ricostruirla ritenendo che la stessa fosse sostanzialmente rettilinea una volta lasciata l’imboccatura del porto di Livorno, tenendo in conto i pochi dati ricavabili dalle testimonianze: le varie ricostruzioni della rotta effettuate nel tempo, come pure quella ipotizzata nella presente relazione, sono tutte ipotetiche e l’approssimazione stabilita in sentenza circa la posizione tenuta dall’AGIP ABRUZZO al momento della collisione, può portare a ricostruzioni molto diverse tra loro della rotta effettivamente seguita dal MOBY PRINCE all’uscita dal porto di Livorno (tali affermazioni sovvertono persino il “concetto di rotta”). Dai calcoli di massima effettuati, la velocità media risultante nel tragitto dall’imboccatura del porto di Livorno al punto d’impatto era di circa 15 Nodi: di conseguenza, è molto verosimile che la velocità tenuta al momento della collisione fosse pari all’incirca alla velocità di crociera abitualmente tenuta dal MOBY PRINCE, pari cioè a circa 18 Nodi. Se il comandante del traghetto impostò la velocità di crociera significa che prima aveva impostato le coordinate della rotta e quelle dovrebbero essere state presenti nelle apparecchiature di pilotaggio della nave. Lasciarla bruciare significava cancellare ogni traccia poi incolpare i morti è facile.
Queste sono le perizie “alla Ponzio Pilato”, si sa perfettamente che vi sono procedure tassative che devono essere seguite proprio per evitare incidenti e problematiche varie.