Con “Disclose”, i Bounced Back firmano un brano diretto, viscerale, che rifiuta i compromessi. Tra filosofia, denuncia sociale e una sonorità cruda, la band torinese racconta un’esigenza urgente: rompere il silenzio, smascherare l’omologazione e affermare l’unicità del pensiero anche quando fa male. Un’intervista senza filtri.
“Disclose” ha un messaggio forte e scomodo. Quando avete capito che era il momento giusto per scriverla e pubblicarla?
Abbiamo capito che era il momento giusto quando ci siamo resi conto che il silenzio stava diventando una forma di complicità. Disclose è nata da un'urgenza, da quella sensazione che qualcosa dentro stia gridando, ma il mondo fuori preferisce abbassare il volume. Non volevamo più tacere, non solo per noi, ma per tutte quelle voci che ogni giorno vengono soffocate, ignorate o manipolate. Abbiamo sentito il dovere di trasformare quella tensione in musica.
Nel ritornello si parla di “fall in line or fall”. È una provocazione o una constatazione?
È entrambe le cose. È una fotografia di come spesso la società ti metta davanti a un bivio, adeguarti o cadere. Ma noi volevamo mostrarne l’assurdità. Quella linea da seguire non è neutra, è costruita per escludere, per selezionare chi può parlare e chi no, chi ha il diritto di esistere in un certo modo e chi viene spinto ai margini. Disclose cerca di smascherare questo meccanismo.
Il brano contiene riferimenti impliciti a Foucault, Sartre e Marx. Quanto contano per voi la filosofia e il pensiero critico nella scrittura musicale?
Sono fondamentali. La filosofia ti insegna a non accontentarti delle versioni comode, a scavare sotto la superficie, a riconoscere che ciò che diamo per scontato spesso è il prodotto di strutture di potere invisibili. E la musica, se vuole essere onesta, deve parlare anche di questo. Non vogliamo suonare intellettuali, ma solo dire che anche una canzone può essere un atto di pensiero critico, un momento in cui il pubblico si ferma e si chiede: “Aspetta, cosa sto davvero ascoltando? E cosa mi sta succedendo intorno?”
Cosa significa per voi ribellarsi oggi, in una società dove anche il dissenso rischia di diventare una moda?
Ribellarsi oggi significa non smettere di farsi domande, anche quando le risposte fanno male. Significa scegliere di non voltarsi dall’altra parte, anche quando farlo è più semplice. Viviamo in un tempo in cui la sofferenza è ovunque, eppure viene normalizzata, messa in fondo ai feed. Noi non possiamo accettarlo. Ribellarsi è rompere il meccanismo dell’indifferenza. Anche solo riconoscere l’umanità negata di chi non ha voce, di chi viene ridotto a numero, a danno collaterale, è già un atto rivoluzionario.
C’è stato un momento nella vostra carriera in cui vi siete sentiti obbligati a conformarvi? E se sì, come ne siete usciti?
Sì, è successo. Il sistema musicale, come tanti altri, ha le sue regole non scritte. A un certo punto ci siamo chiesti se valesse la pena continuare a giocare bene o iniziare a dire davvero qualcosa. Ne siamo usciti tornando all’essenza, scrivere per noi, scrivere per chi sente che certe cose non si possono più dire sottovoce. La svolta è arrivata quando abbiamo capito che il compromesso ci stava svuotando.
“Disclose” è un atto di liberazione. Quanto vi ha cambiati scriverla e portarla dal vivo?
Tantissimo. Scriverla è stato come guardarci allo specchio e non distogliere lo sguardo. Portarla dal vivo, poi, è un’esperienza ancora più forte. Ogni volta che la suoniamo sentiamo che qualcosa si apre, dentro di noi ma anche tra noi e chi ci ascolta. È come se per un attimo si creasse uno spazio dove tutti possiamo essere veri, vulnerabili, arrabbiati, confusi, eppure presenti. Liberi. Questo per noi è Disclose, un invito a non smettere di sentire, anche quando fa male. Soprattutto quando fa male.
open.spotify.com/intl-it/album/7EuDMXvildWG0G2nTOb8K2?si=e8GBr9bgSxiVw3Cj9CPmHw