Un inarrestabile processo di degrado che ha travolto il Paese è in atto sin dall’inizio della sua storia democratico-repubblicana che segnerà indelebilmente i destini e la dignità di milioni di vite. 

Il terreno iniziale dove il malaffare ha potuto attecchire con facilità era caratterizzato da un analfabetismo generalizzato, il 70% della popolazione non sapeva né leggere né scrivere, frutto del dominio feudale e cattolico dove medici, avvocati, notai, preti e nobili gestivano la vita pubblica e privata di un’intera popolazione asservita ai proprietari terrieri fino al periodo post bellico.

L’industrializzazione allontanò dal dominio incontrastato di interi territori la casta dominante che si diresse verso investimenti più moderni e redditizi provocando un’ondata di migrazione interna che si concentrò nel settentrione del Paese, sottoposta alle stesse regole patronali di quando lavorava nelle campagne.

Le banche divennero un elemento primario per lo sviluppo industriale del Paese e come tutto ciò che rappresenta potere e ricchezza divenne uno strumento di malaffare. Il processo di democratizzazione del Paese non fu volutamente curato a dovere per questo non vi fu una risposta adeguata all’affermarsi di tale malcostume, la gente non era preparata a fronteggiare una tale deviazione perché di fatto era completamente esclusa dalla vita economica del Paese e politicamente pilotata dal potere ecclesiale che li aveva trasformati da servi della terra a servi dell’imprenditoria.

Quando accaddero i fatti di cui intendo parlare la maggioranza dell’opinione pubblica non era in grado di valutare la gravità della situazione, oggi la situazione non è cambiata, i cittadini sono ormai entrati nel tritacarne del debito sia pubblico che privato, la maggioranza della popolazione ricorre al prestito troppo facilmente per soddisfare un consumismo inutile e dannoso.

Di quel che accadde il 24 marzo del 1979 ricordo con chiarezza il clamore dell’arresto del vice direttore della Banca d’Italia Sarcinelli portato via in manette e sbattuto sulle prime pagine dei quotidiani: un funzionario di alto grado trattato come un pericoloso criminale, fummo informati tempo dopo che un uomo onesto e coraggioso era stato umiliato dinanzi a tutta una collettività che, usando il clamore mediatico come arma di distruzione sommaria, era stata spinta a giudicare e condannare una persona per bene che aveva tentato di tutelare l’interesse dello Stato che rappresentava.

Ritornando alla cronaca di quel lontano giorno della fine di marzo del 1979, Antonio Maccanico, segretario generale al Quirinale con Sandro Pertini, il 23 marzo scriveva nei suoi diari: “Ho ricevuto Giovanni De Matteo (capo della procura di Roma), il quale mi ha informato della proposta di un suo sostituto di procedere contro Baffi e Sarcinelli… Sono rimasto allibito… Ho informato il presidente Pertini, La Malfa e Baffi… Ho un gran sospetto che vi sia un legame con l’Affare Caltagirone, cioè che si voglia premere su Baffi e Sarcinelli perché questi divengano più arrendevoli di fronte al caso Caltagirone-Italcasse”.

Il giorno seguente i carabinieri, guidati dal colonnello Campo, entravano nella sede della Banca d’Italia per arrestare Mario Sarcinelli e, nel contempo notificavano al Direttore dell’istituto Baffi l’incriminazione per interesse privato in atti d’ufficio e favoreggiamento, per non aver trasmesso all’autorità giudiziaria la relazione degli ispettori in merito alla pratica del Credito Industriale Sardo (CIS), che dalla data del 7 aprile 1978 era ancora in fase istruttoria.   

Ma cosa intendeva Maccanico indicando il caso Caltagirone-Italcasse? Perché mai nel 1979 il “complesso politico-affaristico-giudiziario” prese di mira la Banca d’Italia? Quali furono le “colpe” di Baffi e Sarcinelli? 

La prima “colpa” fu sciogliere il consiglio di amministrazione dell’Italcasse, cioè del più importante istituto di credito dominato dal potere democristiano. Baffi e Sarcinelli si erano accorti che alcuni istituti di credito erano diventati un vero e proprio covo di malfattori. Queste cose e altre ancora, Baffi e Sarcinelli le avevano prima intuite, poi accertate, mandando gli ispettori della «Vigilanza» all’Italcasse nell’agosto 1977. 

Dopo poche settimane Desario inviava a Baffi un rapporto scritto circostanziato molto grave: “Sono stati trascurati i più elementari principi di organizzazione aziendale…Si era fatto frequente ricorso a ‘frenetici’ movimenti contabili, interni o in contropartita con altre aziende di credito, allo scopo di far disperdere ogni traccia di operazioni irregolari, di cui ovviamente non si rinveniva in atti alcuna documentazione probante (…) Incredibilmente estesa e ricorrente è risultata l’emissione di assegni Iccri o la richiesta di circolari all’ordine di nominativi di ‘pura fantasia’ per corrispondere immotivatamente a terzi somme di pertinenza dell’Istituto”. 

Il presidente di Italcasse, Giuseppe Arcaini, in modo surreale, cercò di giustificarsi in modo maldestro, scrivendo un appunto per gli Ispettori, dove i movimenti intervenuti nei fondi interni sono “Operazioni da me ordinate nell’interesse dell’Istituto e senza alcun onere per lo stesso”. 

L’ispettore Desario continua: “Emergono tutte le irregolarità e gli abusi che si sono concretizzati in un danno a carico dell’Iccri a tutto vantaggio di terzi’ (ASBI, Carte Baffi). I ‘nomi di fantasia’ dei conti che servono per i traffici del direttore generale sono indicativi del pressapochismo e della poca immaginazione: ‘Pentola Vecchia’, ‘Pentola Calda’, ‘Francis’, ‘Mario Ferrari’, ‘Carlo Sassi’, ‘Taddeo Villa’, ‘Silvio Colli’, ‘Primo Landi’; ‘Micheli Rivelli’, ‘Luigi Fantozzi’. Neanche Ugo Fantozzi – prima apparizione nel 1975 sarebbe riuscito a fare così tanti danni”.  

Desario scriveva ancora: “Si evince con immediatezza che, in un arco di tempo pari a poco più di due anni (1972-1974), l’Iccri ha erogato – mediante artifizi contabili – notevoli disponibilità a persone e organizzazioni che formalmente non avevano alcun titolo per introitare le somme ricevute”.

Baffi, ricevuta la relazione, dopo aver consultato gli uffici legali della Banca, chiedeva al Ministro del Tesoro il commissariamento dell’Italcasse.  Mino Pecorelli definì i banchieri di nomina politica, come Giuseppe Arcaini, direttore generale dell’Italcasse, “foche ammaestrate” perché nell’erogazione del credito eseguivano passivamente le volontà dei loro mandanti politici.

Nel campo della vigilanza, sottolinea lo storico Alfredo Gigliobianco: “Baffi, insieme con il vicedirettore generale Mario Sarcinelli, contrastò i fenomeni degenerativi che si manifestavano in quegli anni, usando anche con efficacia e senza timori reverenziali lo strumento delle ispezioni”.

Inoltre, per valutare l’importanza di quella vicenda, è da ricordare ciò che Moro riferì sull’Italcasse nel suo memoriale durante il suo rapimento da parte delle Brigate Rosse nella primavera del 1978, definì: “canale avvilente” l’attività di finanziamento svolta dall’Italcasse, continuò: “E lo sconcio dell’Italcasse? E le banche lasciate per anni senza guida qualificata, con la possibilità, anche perciò, di esposizioni indebite, delle quali non si sa quando ritorneranno e anzi se ritorneranno. È un intreccio inestricabile nel quale si deve operare con la scure. (…) E a proposito d’Italcasse, o, come si è detto, grande elemosiniere della D.C., è pur vero che la trattativa in nome dei pubblici poteri per la scelta del successore dell’On. Arcaini è stata fatta da un privato, proprio l’interessato Caltagirone, che ha tutto sistemato in famiglia”.

Comunque lo scandalo dell’Italcasse scoppiò fragorosamente e scoprì il fiume ininterrotto di denaro diretto nelle casse dei partiti. I giornalisti dei principali quotidiani si scatenarono. Ripescando dagli articoli scritti in quel periodo è interessante il commento di Renzo Martinelli sul Corriere della Sera: “Dalla pentola sono usciti gli assegni del ministro Evangelisti, quelli dei fratelli Caltagirone, le elargizioni ai partiti, i finanziamenti a Rovelli e a Ursini, i prestiti alle immobiliari. E ancora: i miliardi per i “fondi neri”, quelli fuori bilancio utilizzati per gratifiche e regalie, per investimenti folli, per parcelle favolose, ma soprattutto per ungere le ruote del sistema politico. Per trent’anni l’Italcasse è stato il forziere del palazzo, la cassaforte dei potenti”. 

A parere di Giuliano Vassalli, avvocato della Banca d’Italia, “il desiderio di Alibrandi (giudice istruttore insieme a Luciano Infelisi) di voler far l’inquisitore del governatore della Banca d’Italia era certamente legato a una procedura, credo quella dell’Italcasse, che doveva essere stroncata e non andare avanti. L’Italcasse era una specie di fondo della Democrazia Cristiana, a capo della quale c’era Arcaini. La faccenda dell’Italcasse dava noia e questo processo doveva essere smontato: siccome il principale accusatore era Sarcinelli, tutto si orientò per trovare qualche cosa a carico di Sarcinelli. Qualcosa fu trovato, ma a carico di Baffi. (…) Baffi era consigliere di un ente, l’IMI, che aveva commesso non so quale presunto errore. Insomma vollero scoprire Baffi: quanta pena ci passammo, mamma mia!” 

“L’attacco della magistratura romana sorprese enormemente Baffi. Non appena i primi segnali d’allarme cominciarono a scoppiare, i potentati colpiti e i loro protettori passarono al contrattacco. Giulio Andreotti con i suoi comportamenti – il silenzio assoluto nella difesa di Baffi e Sarcinelli, i continui incontri con l’avvocato Guzzi per discutere del salvataggio delle banche di Sindona, gli stretti rapporti con i fratelli Caltagirone e Rovelli, l’oggettivo danno subito dalla DC dopo la scoperta da parte della Vigilanza dei finanziamenti illeciti tramite l’Italcasse di Arcaini, i numerosi incontri di Evangelisti con Sarcinelli per trovare una soluzione al dossier Caltagirone – induce a pensare che avesse un forte interesse all’operazione di allontanamento dalla Banca d’Italia di Baffi e Sarcinelli.I magistrati, in connubio con la peggior politica e sedicenti ‘imprenditori’ legati al mondo andreottiano hanno voluto solo distruggere sia Baffi che Sarcinelli, affinché la loro sorte servisse d’esempio ai successori e ai loro possibili imitatori, affinché tutti vedessero che chi tocca quel genere di fili muore”.

Baffi non capiva quale rapporto ci fosse tra il fare il proprio dovere secondo la legge scritta e quella morale, e meritarsi l’inimicizia dei governanti e dei magistrati. Baffi, nei suoi diari, il 27 marzo 1979 aveva scritto: “Non ci sono, ahimè, Einaudi, Mortara, Moro, La Malfa (spentosi ieri mattina), che mi avrebbero difeso a spada tratta; Parri è malato. I vecchi sono deboli anche in ragione della scomparsa degli amici». Come ha scritto Eugenio Scalfari, “il potere ha distrutto un uomo, e il paese delle persone perbene ha assistito a questo delitto senza alcuna apprezzabile reazione”.

Invece Miguel Gotor commentava tristemente: “Con la vicenda dell’Italcasse si entra, quindici anni prima di Tangentopoli, dentro le dinamiche di funzionamento del sistema di potere nazionale, vale a dire l’intreccio endemico tra politica e mondo imprenditoriale, dimensione privata e funzione pubblica, cricca e libero mercato”.

Sono passati quarant’anni e tale esperienza ci ha lasciato solo un altro vuoto di memoria e molte rughe in più.