L’invito a un incontro cordiale rivolto a Kim Jong-un è la prima mossa rassicurante di politica estera compiuta dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
Se fossimo sicuri (purtroppo non possiamo esserlo) che non è stata l'impulso di un momento ma il frutto di una ponderata strategia, potremmo perfino azzardare l’ipotesi che nella variegata cerchia dei suoi consiglieri ci sia qualcuno che di politica estera, e pure di psicologia dei dittatori, capisce qualcosa.
Rispondere ai gesti di un narcisista paranoico mostrando i muscoli non è mai una buona idea. O almeno non lo è se lo scopo è quello di farlo desistere dal fare il matto. Con la gente così, la tattica del “ti faccio vedere io” non funziona. Chiunque nella vita di tutti i giorni abbia avuto modo di confrontarsi con uno di loro lo sa: se fa il gradasso per attirare l’attenzione e tu gli mostri un po’ di considerazione si placa. Non per sempre, ma per qualche tempo ti lascia in pace. Se invece non te lo fili per niente o gli dici che sei "meglio di lui", è capace di infliggerti ogni tormento pur di farsi notare da te e dagli altri. Kim è fatto così e per giunta gli piace giocare con le armi nucleari.
Diverso il giudizio sulle manifestazioni di forza in cui finora si è esibito Donald Trump per disinnescare “la bomba nord-coreana” se invece i suoi reali obbiettivi erano altri. Per esempio, giusto per indicarne uno, indurre la Corea del Sud e gli altri alleati dell’area a rinforzare la propria difesa con nuovi dispositivi acquistati dagli Stati Uniti. In questo caso, tanto di cappello. Non si può certo affermare che il risultato Trump non lo abbia raggiunto.
Da condividere, dunque, l’interpretazione che in un suo articolo di oggi Federico Rampini dà dell’apertura di Trump a Kim Jung-un e al presidente filippino Rodrigo Duterte: non è stata stravaganza ma Realpolitik.
Non convince invece il parallelismo che Rampini propone tra la decisione di Trump di dialogare con i due dittatori e la mano tesa offerta da Barak Obama all’Iran nel 2008. In attesa del giudizio che la storia darà della presidenza Obama, di un fatto possiamo essere certi: la sua apertura all’Iran è stata una scelta strategica (giusta o sbagliata, non è il caso qui di entrare nel merito) a lungo meditata e (ricordiamo le sue parole “se apriranno il loro pugno, noi tenderemo la mano”), niente affatto imprudente né velleitaria.
Non possiamo, non per ora almeno, anche se ci piacerebbe molto, affermare la stessa cosa a proposito del “sarei onorato di incontrare Kim” detto da Trump. Vorremmo tanto poter pensare al presidente degli Stati Uniti come a una persona che riflette prima di parlare, ma non ce ne ha dato finora convincenti motivi. Che il suo sia stato in sé un atto di Realpolitik non c’è dubbio, che lui ne sia consapevole non è da dare per scontato. Perciò, augurandoci che sappia ciò che dice, e quindi come andare avanti, incrociamo le dita e aspettiamo di vedere come evolve, se evolve, la sua offensiva diplomatica. Ammesso e non concesso che di questa si tratti e non di una nuova variante del suo personale narcisismo.
Nell’attesa, possiamo soltanto sperare –ed ecco l’acqua santa- che a qualcuno alla Casa Bianca venga in mente di fargli trovare sul comodino una registrazione della formidabile lezione di altissima diplomazia che ha offerto Papa Francesco con le sue risposte ai giornalisti durante il suo viaggio di ritorno dall’Egitto.
In realtà, non solo Trump, ma chiunque si cimenti con la diplomazia dovrebbe meditare su queste risposte. Ne citerò una sola, quella che forse più colpisce per come Francesco sia riuscito a essere schietto, sottile e cauto allo stesso tempo. È quella data al giornalista che gli ha domandato se gli fosse riuscito di parlare con il presidente Al Sisi del caso di Giulio Regni.
‹‹Generalmente –ha detto il Papa- quando sono con un capo di Stato in dialogo privato, quel dialogo rimane privato a meno che, d’accordo, non si dica: quanto diciamo su questo punto lo renderemo pubblico››. E ha poi aggiunto: ‹‹dalla Santa Sede mi sono mosso su quel tema … la Santa Sede si è mossa. Non dirò come né dove, ma ci siamo mossi››.
Un capolavoro!
Francesco sarà pure il capo dello Stato più piccolo del mondo, che non dispone di testate nucleari ma soltanto di un esercito di 110 uomini. Eppure, quanto saremmo tutti più tranquilli se il capo dello Stato più potente del mondo, in attesa di imparare la sua lezione, passasse la mano e lasciasse a lui il delicato compito di gestire le questioni complicate.