Salve signor Ramazzotti, come si descriverebbe? “Sono un uomo che ha tanti dubbi, tante fragilità. A 49 anni mi ritrovo ancora single, una situazione che mi porta a pensare se sono oppure no un eterno Peter Pan. So di avere dedicato tutta la mia vita al teatro. Mi considero sposato con il teatro, anche se a volte mi manca avere una compagna fissa. La vita mi ha dato la possibilità di poter scegliere di formare una famiglia, ma probabilmente ho deciso di non farlo o più semplicemente non ho incontrato quella persona che veramente mi ha fatto cambiare idea. Al tempo stesso, mi ritengo una persona con dei valori. Penso sia importante quando creare una famiglia, creare un habitat comodo per i propri figli, sicuramente quando questo habitat viene a mancare chi ne risente è proprio il figlio e quindi questo per me è la paura grossa nell' incontrare una persona. Oggi ci sono anche le famiglie allargate, ma non credo che i figli non soffrano di fronte a questa prospettiva”.
Attualmente, uno degli spettacoli che porta a Teatro è La Cena delle Belve. Che ruolo interpreta? “Sono il dottore, che ricopre un ruolo molto ambiguo nella storia, è una sorta di bandieruola. La narrazione è ambientata nel 1943, per cui si deduce tranquillamente che quest’uomo lavora per i tedeschi. E’ un medico che deve dividersi tra i nazisti, i tedeschi e gli italiani. È un ruolo molto ambiguo, pavido, perché è personaggio che ha sempre paura e questo lo rende anche tragicamente comico. La Cena delle Belve è uno spettacolo corale, dove è importante la presenza di tutti i membri del cast”.
E per quanto riguarda la versione italiana di Sherlock Holmes, com’è nata l’idea? “Avevo già fatto 10 piccoli indiani, che è stato un grandissimo successo. Io e Ricard Ereguant abbiamo così pensato a un altro thriller che avesse le caratteristiche di coinvolgimento non solo del pubblico in generale, ma anche di quello teatrale. Insomma, cercavamo un giallo trasversale. Gli abbiamo anche dato un impatto molto visivo: 40 costumi, 10 attori di scena, una scenografia che ricalcasse l'Inghilterra e la Londra vittoriana di quegli anni. Dopo averlo portato in scena a Barcellona per 6 mesi, lo spettacolo debutterà adesso alla Sala Umberto. Il pubblico è già incuriosito. La figura di Sherlock Holmes è una figura poco battuta dal punto di vista teatrale, anche se il brand – cinematograficamente parlando – è diventato molto forte. Per quanto possibile, ci siamo posti come obiettivo di rinfrescare questa figura. Gli abbiamo dato un taglio cinematografico, ma con il linguaggio teatrale”.
Ci parla un po’ del cast di Sherlock Holmes? “Sì, la scelta del personaggio principale è caduta da subito su Giorgio Lupari. Mi son trovato molto bene con lui perché è un attore di grande professionalità e soprattutto di taglio inglese. È un bellissimo uomo e in teatro è estremamente di impatto. Avevamo bisogno di un attore del suo calibro, in grado di portare sulle spalle il compito di portare in scena un personaggio molto amato nell'icona generale. È stata semplice anche la scelta di Whatson, serviva un Whatson che non fosse vicino alle vecchie icone del personaggio di Doil. In questo caso, abbiamo optato per Francesco Bonomo, che aveva già lavorato con noi ne La Cena delle Belve e che è un attore di grande forza scenica”.
Lei ha fatto parte anche de Il Bagaglino, che ricordi ha di quell’esperienza? “E’ stata una palestra estremamente importante, io venivo dal teatro quindi non venivo dalla comicità. Nel periodo del teatro, Pingitore mi vide fare Boietto nella versione di Rugantino con Valerio Mastandrea, Sabrina Ferilli. Mi chiamò, senza che io me l’aspettassi, per far parte del gruppo del Bagaglio. Ne ho fatto parte dal 2001 al 2010, sono stati quasi 9 anni dove ho lavorato tutti i giorni. Ho considerato il gruppo come una grande famiglia. Il rammarico più grande è che quella famiglia nasceva e moriva lì. Non sono rimasto in grandi rapporti con tutti, capita che ogni tanto mi scrivo con qualcuno su Facebook, ma tra di loro erano più legati. Venivano da una storia diversa, sono stati insieme quasi 30 anni ed io ho fatto parte della storia in minor tempo, anche se 9 anni su 30 non sono poi così pochi. Ho grandi ricordi di quello che facevamo lì, c'era una famiglia che ti coccolava, anche se mi ha colpito questo fatto che, una volta uscito, non ho più sentito nessuno, se non in rari casi. Con Leo Gullotta e Pippo Franco, ad esempio, non si andava quasi mai a cena. Credo che il mito del Bagaglino non morirà mai perché era una compagnia che nel momento in cui si entrava dentro erano tutti dei grandi professionisti. Era veramente incredibile lavorare lì dentro, era una grande catena di montaggio dell’arte”.