Nell’universo del capitalismo l’oro non viene incubato solo all’interno del sistema imprenditoriale, ma proviene anche dal mondo dell’arte, dello sport, del management. Giusto un gradino sotto il sistema più noto, ma con garanzia di maggior divertimento. Almeno per artisti e sportivi.

Abbiamo più volte parlato della mancanza di limiti all’accumulo di ricchezza, e vale tanto per il comparto imprenditoriale quanto per coloro che rappresentano se stessi e i propri talenti, percependo salari o compensi astronomici: l’oro immorale, lo chiamo io.

Il 10% dei calciatori guadagna oltre 700 mila euro l’anno, ma sappiamo che più sono “bravi” (o notati) più arrivano a cifre nell’ordine delle decine di milioni di euro. Ma ci sono anche calciatori professionisti che guadagnano meno di 10 mila euro l’anno. Così come i conduttori televisivi: un Bonolis nel suo festival di Sanremo percepì un cachet di 1 milione di euro, rispetto all’odierno e “più umile” Amadeus che si è accontentato di 600 mila euro; per poi arrivare ad altri bravissimi intrattenitori che però viaggiano su reti minori e si accontentano di qualche migliaio di euro, giusto un normale stipendio.

E’ normale; è meritocrazia. Si direbbero cose simili. In fondo il dipinto “Composition No. III“ di Mondrian è stato battuto all’asta per oltre 50 milioni di dollari (lo vedete a sinistra nell’immagine), surclassando il valore di circa 7 milioni di sterline de ”L’uomo è in mare“ di Van Gogh (lo vedete accanto, in ultima stima su sothebys.com).

Siete d’accordo sul valore? Apprezzate la differenza tra le due opere?

Un nonnulla, comunque, se paragonati al valore inestimabile della “Gioconda” di Leonardo, piuttosto che il suo “Salvator Mundi” battuto all’asta per appena 450 milioni di dollari.

Lo ripeto: apprezzate, e sono corrette, le differenze economiche?
Quello di Mondrian ha qualche quadrato colorato, e vale tantissimo. L’altro è un Van Gogh tipico, e vale molto meno.

Di estremi ne trovate quanti ne volete. Se, però, non vi ritenete capaci di giudicare il valore economico di un’opera d’arte, piuttosto che il talento di un calciatore, di una manager, di un presentatore TV o di una grande attrice, avete ragione: non potete farlo, né voi né nessuno. In tema d’arte il prezzo non esprime mai il valore reale artistico e intrinseco, ma il valore apparente determinato da affari e speculazioni commerciali presso gallerie, mostre, collezionisti privati e aste. Vale il discorso dei “furbetti dell’economia” che guadagnano cifre insane seguendo le fluttuazioni borsistiche.

Il prezzo dell’arte è possibile solo perché esiste chi può pagarlo, ed è disposto a qualunque cifra pur di soddisfare il proprio desiderio di possedere e sfoggiare qualcosa. L’arte viene semplicemente mercificata, proprio perché esiste tanto denaro concentrato sulle mani di chi ne può alzare il prezzo (il cane che si morde la coda).

In maniera del tutto analoga si mercificano i talenti. Se un attore viene pagato svariati milioni è perché si prevede di guadagnare molto di più dal prodotto, come ad esempio un film. Non è per nulla il valore dell’attore che si sta pagando, ma una percentuale sul valore di un’operazione commerciale. E se poi quell’attore non troverà più ruoli in operazioni commerciali di livello simile, si accontenterà di cifre anche molto inferiori, perché deve “campare”. Fluttua il compenso ma giammai il talento, che rimane ovviamente intatto a prescindere, eccellente o scarso che sia. Così come intatto a prescindere rimane il valore reale dell’arte in tutte le sue declinazioni.

Ora sarà senz’altro più chiara la conseguenza di tutto ciò.

Il talento che dà luogo a opere d’arte o altre forme espressive, sempre nell’arte piuttosto che nello sport, non ha un prezzo meritocratico (che brutta parola, tra l’altro). Il suo prezzo è sempre e comunque commerciale, determinato dalle operazioni che l’imprenditore decide di compiere. Non prendiamocela dunque con chi o cosa viene strapagato, perché tale valore è la conseguenza dell’affare che l’imprenditore sta compiendo. Tutto qui.

Al più, l’arte e il talento si giovano di un ciclo d’isteresi più o meno persistente. Un concetto che possiamo mutuare dalla fisica (meccanica, termodinamica, magnetismo, etc.) ma validissimo anche in economia. Esso comporta che il valore assunto può persistere per un certo tempo prima di rispondere a nuovi valori. Quindi un talento strapagato a seguito di un’operazione può continuare a esserlo a sacrificio dell’utile in un’altra operazione; quest’ultima giovandosi però della popolarità o nomea precedentemente acquisite dal talento stesso.

Questa è “l’immoralità dell’oro”.

Accanto ad essa c’è anche un altro genere di immoralità, che facilità e rende possibile la prima: ”l’immoralità del carbone”.

Ritengo che i “poveri” debbano essere sempre difesi; e non gradisco nemmeno usare questo termine inviso dall’alba dei tempi per discriminare e colpevolizzare chi possiede l’essenziale, poco o nulla. Ricchezza e povertà, come scrissi a suo tempo, sono ben altro! Ma per quanto s’intende oggi la condizione di povertà che non riuscirei a giustificare è quella dell’analfabetismo. Il povero, che è pure culturalmente povero, non è difendibile. Ovviamente nei limiti di chi pur potendo arricchirsi almeno culturalmente - e ricordiamoci che oggi istruirsi è del tutto gratuito - rimane inerte a crogiolarsi in sciocchezze.

I poveri sono la maggioranza assoluta in qualunque paese al mondo. E i poveri analfabeti per loro scelta sono la maggioranza del primo insieme.

Questa immoralità del carbone rende fondamentalmente stupidi e impedisce di comprendere che sono loro stessi ad alimentare l’immoralità dell’oro, e se ne lamentano pure. Facciamo qualche esempio.

Se Sanremo totalizzasse solo il 15% di share, perché molte persone decidessero di leggere un bel libro anziché guardare lo spettacolo, il prossimo anno tutti i compensi dei bravissimi presentatori, musicisti, autori, e declamatori della Costituzione (ovvero predicatori claudicanti), si ridurrebbe di conseguenza. Perché ridotto sarebbe anche il margine imprenditoriale. Ma il festival si farebbe lo stesso, e sempre con tutti loro. La medesima cosa accadrebbe se si dimezzassero i tifosi allo stadio: i calciatori continuerebbero a giocare, bravi come sempre, ma pagati di meno.

Sono esempi, sia chiaro. Ma il punto è che anziché lamentarsi si può agire in santa pace e con certezza di risultato. Però si deve prima uscire dalla propria ignoranza scelta, perché è così che si mette in moto il cervello producendo scenari e soluzioni, e permettendo soprattutto di confrontarsi, ragionare e organizzarsi, per uno scopo comune. Comprendendo l’essenziale necessità di perseguire lo scopo comune (solidale e altruistico) per arrivare a conseguire anche quello individuale e proprio (egoistico).

In un tempo ragionevole il sistema si adatta al messaggio, perché non ha scelta: se lo share e i tifosi tornano il maggior denaro viceversa non può tornare, se non per essere redistribuito nel sistema a sostegno della crescita di tutti e dell’abolizione delle povertà economiche. Altrimenti si procede ad ulteriore “botta”, e in effetti in un’unica botta sarebbe alquanto improbabile.

Tra l’immoralità dell’oro hanno preso posto molto strumenti tecnologici odierni, come le pressanti pubblicità sui siti web, social, profilazione utente, e via discorrendo. Loro acquistano a zero, o al prezzo di qualche misero servizio gratuito, incassando dallo stesso gruppo d’acquisto degli immorali del carbone cifre impressionanti. Ma sono tutti ugualmente lì, a sfruttare l’elemosina del gratuito e non determinare la ricchezza del loro apporto.

Sarebbe stato riduttivo e inutile fare il semplice e solito discorso sull’immorale differenza di guadagno tra un operaio e il cachet - ad esempio - della Ferragni, che per due sere incassa 6 anni di stipendio dell’operaio, divertendosi e orientando anche l’opinione (ma “bontà sua” l’ha interamente donato). Invece è importante capire l’immoralità del problema nella sua intera sequenza, e soprattutto la sciocca contropartita che lo alimenta.