Era il 17 marzo del 1988, quando la Cassazione confermò l’assoluzione decisa in appello, quell’arresto si confermò ingiusto: Tortora era una vittima innocente della giustizia italiana e delle false accuse dei pentiti, che lo fecero rimanere per sette mesi in carcere portandolo poi, lentamente, alla morte. Quell’immagine, che avrebbe dovuto rappresentare un monito, sembra non aver insegnato nulla. Eppure sono passati ben 36 anni.

Il caso Tortora, uno dei più emblematici errori nella storia giudiziaria italiana, rappresenta una ferita profonda che, a distanza di oltre quarant'anni, non si è ancora rimarginata. La vicenda del noto conduttore televisivo, ingiustamente accusato di associazione camorristica e condannato a sette mesi di carcere preventivo, rimane un simbolo della "giustizia spettacolo" e delle storture di un sistema giudiziario che privilegia il clamore mediatico alla ricerca della verità.

 L'arresto di Tortora, avvenuto il 17 giugno 1983 con tanto di fotografi e cameramen a immortalare la scena, segnò l'inizio di un calvario durato cinque anni. Un calvario che si concluse solo il 17 marzo 1988 con l'assoluzione definitiva da parte della Cassazione, ma che lasciò profonde cicatrici nella vita del conduttore. La sua salute e la sua reputazione furono irrimediabilmente compromesse da un'accusa infondata e da un processo basato su testimonianze discutibili.

 In questa battaglia contro l'ingiustizia, Tortora fortunatamente non fu lasciato solo. Al suo fianco si schierarono sin dal primo momento i radicali di Marco Pannella, che lo fecero diventare un simbolo della loro lotta per la giustizia giusta e per la riforma del sistema giudiziario italiano.

Tortora venne eletto europarlamentare proprio con il Partito Radicale, carica da cui si dimise per affrontare il processo senza la copertura dell'immunità. Un gesto coraggioso e di grande dignità, che testimonia la sua tenacia e il suo profondo senso di giustizia. La sua rinuncia alle prerogative parlamentari resta un caso più unico che raro nella nostra storia politica. Come resterà memorabile la frase rivolta ai giudici: “Io grido: sono innocente. Lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi da questo dibattimento! Io sono innocente, spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi”. 

Quei giudici nel 1985 lo condannarono in primo grado a 10 anni di carcere, ritenendolo un “cinico mercante di morte” che era stato “eletto con i voti della camorra”. La Cassazione confermò l’assoluzione e sancì definitivamente la sua completa e assoluta innocenza il 17 marzo del 1987, un anno prima della sua morte, il 15 maggio del 1988.

 A distanza di quarant'anni, ci si interroga su cosa sia cambiato da allora. Nonostante i referendum vinti dai radicali e le leggi sulla responsabilità civile dei magistrati, il principio di responsabilità sembra ancora un miraggio. Il "fortino di irresponsabilità" di cui parlava Tortora appare ancora ben saldo, con rare conseguenze per chi, indossando la toga, commette errori gravi.

 La battaglia di Enzo Tortora, dunque, rimane un monito importante per tutti noi. Un monito a difesa dei principi di innocenza fino a prova contraria e di garantismo, principi che non possono essere sacrificati sull'altare del clamore mediatico o di logiche investigative superficiali.

 La memoria di Enzo Tortora e la sua lotta per la giustizia devono essere tenute vive, affinché le sue sofferenze non siano state vane e perché il sistema giudiziario italiano possa finalmente compiere quel salto di qualità verso una maggiore equità e responsabilità.