Vai alla seconda parte  -  Solo la diga è sopravvissuta quasi intatta alla catastrofe, oggi invece di produrre energia elettrica ha lo scopo di contenere il volume di rocce e terra franato la notte del 9 ottobre 1963 e, per motivi di sicurezza, il lago artificiale non c’è più. Il disastro è stata la tragica conclusione di una scelta temeraria che non ha mai tenuto in considerazione che intorno alla faraonica costruzione vi fossero molti centri abitati a rischio infatti migliaia di esseri umani e animali furono sacrificati alla cieca affermazione del potere e il conseguimento di un enorme profitto. Già la frana del lago di Pontesei di 3 milioni di mc. avvenuta il 22 marzo 1959 era stata un campanello d’allarme dell’imminente tragedia del Vajont e aveva di fatto compromesso gravemente gli ambiziosi programmi dalla SADE ma nessuno ebbe il coraggio di fermare i lavori.  Il ponte sullo Stretto sembra ricalcare l’antico modello dimostrando che le esperienze passate non hanno inciso nel deprecabile stile imprenditoriale italiano moderno.

Sarà la magistratura bellunese a ricostruire passo dopo passo l’intera vicenda. Il procuratore della Repubblica dott. Mandarino il giorno successivo alla catastrofe emetterà numerosi ordini di sequestro che provocheranno un autentico terremoto; i carabinieri preleveranno dalla sede della SADE, nel ministero dei Lavori Pubblici, negli uffici delle Prefetture e del Genio Civile, nei Municipi di Erto, Casso e Longarone interi archivi, consistenti masse di documenti, annate di corrispondenza, atti e delibere ministeriali, relazioni tecniche e informative segrete.  

Esaminando i contenuti degli atti emergeva chiaramente che la SADE gestiva tutte le operazioni relative alla realizzazione della diga sia dal punto di vista tecnico, amministrativo, pubblico, privato e politico. Prendiamo in considerazione un episodio per tutti: l’esimio prof. Dal Piaz considerato il miglior geologo italiano nei rapporti diretti con la SADE dimostrava non di essere una voce indipendente ma un suo impiegato ben remunerato con numerosi e prestigiosi incarichi. Le relazioni del prof. Dal Piaz erano preziose perché insindacabili, data la fama del personaggio nessuno osava contraddirne i contenuti e le conclusioni sempre favorevoli alla SADE.

Dalla documentazione sequestrata e dal “caso Rizzato” la magistratura ricomponeva il quadro di compromessi scientifici, di omissioni tecniche, di complicità tra potere privato e apparato statale, di soprusi e di inganni contro le popolazioni locali. La SADE aveva sottratto alle comunità montane del Veneto le sue risorse fondamentali: l’acqua dei fiumi e dei torrenti, i terreni delle vallate creando povertà ed emigrazione forzata. Solo lo Stato poteva disporre di quei beni da questo si evince che la società utilizzava i suoi contatti politici di alto livello che le permetteva di sollecitare ed ottenere concessioni, permessi e autorizzazioni senza eccessive difficoltà e utilizzare le strutture tecniche istituzionali e universitarie per ottenere relazioni compiacenti. Più volte era ricorsa allo zelo dei carabinieri che provvedevano a denunciare una giornalista scomoda mentre il resto della stampa ignorava il problema e non ne parlava per non avere intralci nel lavoro o fastidi legali. 

Da un documento sequestrato nel 1963 emergeva il discutibile rapporto tra il prof. Dal Piaz e la società costruttrice infatti risulterà che la relazione geologica presentata il 15 giugno 1957 dall’ingegnere Semenza all’Assemblea generale del Consiglio superiore dei lavori pubblici non era stata redatta dal famoso geologo infatti quest’ultimo si era limitato a parafrasare quanto esposto nelle conversazioni avute con il progettista. 

Di relazioni alla SADE il prof. Dal Piaz ne aveva fatte tante dal 1930 in poi, una ogni volta che il progettista alzava la quota e aumentava la capacità dell’invaso.

Ormai l’anziano geologo non ne poteva più di dover coprire le pericolose “modifiche in corso d’opera” al punto che nel 1948 quando la quota della diga era stata portata a 677 metri scriveva a Semenza: “Le confesso che i nuovi problemi prospettati mi fanno tramare le vene dei polsi“  ma rinuncia a opporgli alcuna resistenza quando l’altezza della diga passa da 202 a 260 metri di altezza  e la quota dell’invaso viene portata a 772,5 metri sul livello del mare infatti gli scrive una lettera che viene rinvenuta e sequestrata dagli inquirenti nella sede della società costruttrice, testualmente: “Ho tentato di stendere la dichiarazione per l’alto Vajont, ma Le confesso sinceramente non m’è riuscita bene e non mi soddisfa. Abbia la cortesia di mandarmi il testo di quella ch’Ella mi ha esposto a voce (…) Appena avrò la sua edizione la farò dattilografare e Le farò immediato invio, scusi il disturbo.” Un vero e proprio atto di sottomissione al potere e al denaro! Il celebre professore si trasformerà in un diligente dattilografo, porrà la sua “preziosa” firma di docente – in fede – a piè di pagina della relazione “geologica” redatta da un costruttore idraulico.

Addirittura la retrodata al 31 gennaio 1957, allegando al documento un bigliettino dove scrive: “Spero che il mio scritto risponda ai suoi desideri e che non ci sia bisogno di modificazioni di fondo”. Con questo atto falso, frutto di una mistificazione scientifica si autorizzava solennemente la realizzazione di un progetto ispirato dalla vanagloria, dal desiderio di accrescere il potere della SADE e procacciare un alto profitto per soddisfare i famelici azionisti.

I lavori di costruzione della diga iniziano nel 1957 senza alcuna autorizzazione, per realizzare le fondazioni si usarono cariche esplosive e martelli pneumatici ma sin dall’inizio si manifestavano avvisaglie funeste infatti come si penetrava nei fianchi della roccia questa si frantumava. Nelle fondazioni apparivano profonde fratture nelle quali scomparivano le colate di cemento in quantità assolutamente impreviste, molto lontane dalle previsioni riportate nelle relazioni “addomesticate” del prof. Dal Piaz. Nel luglio dello stesso anno la SADE si avvaleva della consulenza di un valido e onesto geotecnico austriaco Leopold Muller che in un mese di lavoro individuava le “sviste” del celebre geologo italiano infatti individuava enormi massi - addirittura uno da un milione di mc. – in equilibrio instabile nella zona destinata ad essere sommersa.

Muller relazionava chiaramente la situazione: “Anche il terreno di sponda sinistra, caratterizzato da ammassi di sfasciume sui cui verdi pascoli sorgono numerosi casolari, è in forte pericolo di frana, sebbene sia una formazione rocciosa.”

Muller riteneva necessario svolgere approfonditi controlli sulla stabilità di due centri abitati, in particolare sulla comunità di Erto, finalmente questo geotecnico costringeva i dirigenti della SADE a considerare che la loro opera metteva in pericolo centinaia di famiglie che vivevano nei paesi limitrofi la diga.

Nonostante le allarmanti relazioni del geotecnico Muller i lavori per la costruzione della diga proseguivano senza sosta. 

Muller decideva di approfondire l’analisi del versante sinistro del monte Toc e incarica due giovani geologi, uno dei quali Edoardo è il figlio dell’ingegner Semenza e il dottor Franco Giudici di realizzare un completo rilievo topografico, effettuato il quale giungono a conclusioni allarmanti: “(…) sul fianco sinistro sovrastante il futuro lago appariva indiscutibile l’esistenza di una grande, antica frana in lentissimo spostamento verso il basso, delineata su di un profilo di quasi 2, 5 Km.: cosa sarebbe accaduto quando quella frana fosse stata bagnata dall’acqua dell’invaso?

Il 22 dicembre del 1959 in Francia crolla la diga del Frejus uccidendo centinaia di persone nel sonno; il 22 marzo dello stesso anno si verificava la frana del lago di Pontesei che provocò un’onda alta 20 metri: tali episodi avrebbero dovuto scuotere le coscienze dei tecnici della SADE già da molto tempo ma gli interessi continuarono a prevalere.

La relazione che presentò Muller all’intero staff tecnico e scientifico della società costruttrice finalmente creò allarme, narra: “Le masse rocciose si muovono verso valle su una larghezza di 1700 metri. La lunghezza media di 550, al massimo di 600 metri nella direzione di movimento (…) il suo spessore è di 250 metri, in media. A mio parere non possono esistere dubbi su questa profonda giacitura del piano di slittamento o della zona limite. Il volume della massa di frana deve quindi essere considerato di circa 200 milioni di mc.”. Di seguito continua: “Alla domanda se questi frammenti possono venire arrestati mediante misure artificiali, deve essere risposto negativamente: anche se in linea teorica si dovesse rinunciare all’esercizio del serbatoio, una frana talmente grande, dopo essersi mossa non tornerebbe presto all’arresto assoluto. “

Questa sentenza lapidaria crea in Semenza l’ambascia di vedere naufragare la realizzazione della sua opera, i rischi che stavano correndo le popolazioni sembrava non lo toccasse infatti alla fine di ottobre del 1959 chiede l’autorizzazione al primo invaso, fino a 600 metri, è preoccupato di non ottenere quanto richiesto visto gli incidenti che si erano verificati in Francia e le problematiche emerse nella valle del Vajont.

Invece di preoccuparsi della stabilità delle pareti a contatto con l’acqua dell’invaso alla SADE interessava rispettare i tempi di costruzione, superare il collaudo e attivare l’impianto per la produzione di energia elettrica. 

Il 9 febbraio del 1960 il professor Frosini responsabile del Consiglio superiore dei lavori pubblici firmava l’autorizzazione per l’invaso fino a 600 metri ma tale autorizzazione era condizionata perché il funzionario non condivideva il testo in quanto in alcuni punti risultava “opaco” ma per la SADE le firme sulle autorizzazioni sono dei dettagli ininfluenti per questo incominciava il processo di riempimento del bacino sin dal 2 febbraio.

Contemporaneamente un geologo incaricato dalla SADE presenta una relazione fondata su sperimentazioni geosismiche attuate nelle zone critiche rilevate da Edoardo Semenza e da Giudici secondo le quali la frana con uno spessore tra i 10 e i 20 metri, anche se estesa, sarebbe scivolata nel lago senza provocare danni. 

Proprio il figlio di Semenza contesta tale tesi, è certo che l’enorme massa sia posta su di un piano di scorrimento situato molto in profondità. Scivolamento superficiale o frana profonda?

Il 10 maggio l’ingegner Semenza risolve il quesito chiedendo e ottenendo il 30 maggio dal professor Frosini una seconda autorizzazione per elevare l’invaso a 660 metri. Ovviamente viene omesso il problema della frana.

Il mistero sulle due profondità sarà svelato il 10 ottobre del 1963 alle prime luci dell’alba quando si vede ciò che rimane del monte Toc: l’enorme piano di scorrimento lungo il quale era precipitata una frana di 200 milioni di mc. alla velocità di 100 km orari era costituito da roccia, liscia e compatta come il marmo e non debolmente inclinato verso il lago, ma quasi verticale su di esso. 

La relazione scritta da Edoardo Semenza risulta una pietra tombale sul futuro della SADE, minaccia di provocare una reazione a catena che potrebbe travolgere troppi equilibri e personaggi di spicco dell’amministrazione pubblica e privata, cattedratici e politici, poi vi era la questione dei finanziamenti pubblici percepiti. Ma agli occhi dei cittadini emergevano le gravissime responsabilità nei confronti degli esseri umani spazzati via in 3 minuti perché tutti i controlli e le autorizzazioni governative dovevano garantire la pubblica incolumità.  La relazione era un atto interno alla SADE, Semenza invia una lettera al figlio, questo è il contenuto: “Riteniamo indispensabile che tu mostri preventivamente la relazione al professor Dal Piaz, al quale preannuncio la cosa con la lettera che ti allego in copia. Se anche dovrai a seguito del colloquio attenuare qualche tua affermazione, non cascherà il mondo”.

“Non cascherà il mondo” se per salvare gli interessi della SADE e la faccia di chi si è prestato - volente o nolente – a questo “gioco al massacro” consumato sulla pelle di miglia di vittime e della natura, si deve omettere, attenuare o falsificare dati scientifici.  

Ma nella notte del 9 ottobre 1963 la natura salderà il conto salatissimo per quella follia che sarà pagato con 1917 morti, 1300 dispersi e danni per 900 miliardi di lire. Solo trentasette anni dopo la tragedia veniva stabilito che i corresponsabili erano lo Stato, l’Enel e la Montedison subentrate successivamente alla SADE per via della nazionalizzazione della diga priva di collaudo a causa del disastro: a conti fatti con il sistema dei subentri e dello “scaricabarile” chi ha pagato i danni sono stati i cittadini.  

Il 27 luglio 2000 il tribunale accettava l’accordo definitivo tra i tre “corresponsabili” del disastro che prevedeva di pagare un terzo dei 900 miliardi di oneri e danni riconosciuti ai comuni danneggiati: circa 99 miliardi di lire (tradotti in € 51,136,363) a testa senza alcuna rivalutazione e interessi maturati. Uno scandalo nello scandalo. 

Per il ponte Morandi si è ripetuta la stessa farsa: i Benetton si sono fatti pagare 9,4 miliardi di euro per restituire delle strutture ormai obsolete e pericolanti per mancanza di manutenzioni ma dalle quali hanno ricavato una immensa fortuna.

Oggi cosa rimane di quel tragico evento?

L'Enel, proprietaria delle strutture e dei terreni, ha aperto al pubblico nell'estate 2002 la prima parte del coronamento sopra la diga, affidando ad alcune associazioni del territorio, tra cui l'Associazione Pro Loco di Longarone, il compito di gestire le visite guidate. Sabato 11 agosto 2007 è stato aperto al pubblico il coronamento della diga. La gestione è affidata al Parco naturale delle Dolomiti Friulane. I turisti possono ora accedere all'intero percorso del coronamento nelle giornate di apertura al pubblico come precisato nel calendario annuale. Non si possono ancora perlustrare, invece, le gallerie interne alla montagna, anche se dal settembre 2006 è stata ideata una manifestazione podistica non competitiva, con cadenza annuale, denominata "I Percorsi della Memoria", che permette al pubblico partecipante di attraversare anche le strutture all'interno della montagna.

Il processo penale per il disastro e lo scandalo dei fondi per la ricostruzione saranno gli argomenti conclusivi di questa emblematica storia all’italiana.

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Crediti immagine: Frana 4-11-1960.jpg - Wikimedia Commons