Vai alla terza parte - Con il senno del poi anche allora venne scaricato sui cittadini l’onere di provvedere alle necessità di migliaia di persone che avevano perso tutto a causa della temerarietà e spregiudicatezza di individui che avevano portato avanti un progetto elefantiaco ad alto rischio per gli abitanti dei centri limitrofi la diga. In tutte le sue sperimentazioni simulate la SADE si era preoccupata che la struttura tenesse la spinta di una frana di dimensioni ridotte ad una velocità di spostamento minore  senza curarsi della potenza distruttiva dell’onda che sarebbe tracimata dall’invaso e delle conseguenze sugli esseri umani, sugli animali, sui centri abitati: fu calcolato un danno pari a 900 miliardi di lire. 

Dopo aver letto la cronaca del tempo filtrata da una mentalità meno ingenua, emerge la bassezza di una operazione che mirava a sfruttare da un lato la generosità dei cittadini risparmiando alla SADE l’onere di provvedere a quel disastro e allo stesso tempo, disinformare l’opinione pubblica delle reali cause. La tesi della casualità e dell’imprevedibilità fu diffusa nell’immediato e assunta in tribunale come base per la difesa dei vertici della SADE e dei vari uffici pubblici che avevano concorso a tale sciagura in base alle loro rispettive competenze, compreso il governo democristiano protempore.

L’istruttoria venne chiusa dal PM Mandarino il 22 novembre del 1967 depositando un fascicolo di circa 500 pagine che chiese il rinvio a giudizio di Biadene Alberico, Pancini Mario, Frosini Pietro, Sensidoni Francesco, Batini Curzio, Violin Almo, Tonini Dino, Marin Roberto e Ghetti Augusto. In pratica vengono chiamati in causa i vertici della SADE e i dirigenti principali del ministero dei Lavori pubblici per le seguenti motivazioni: 

“C’era un gravissimo pericolo di frana, di inondazione, di morte, c’erano problemi imponenti di geologia, di meccanica e di idraulica. Biadene e Pancini erano dei costruttori, Marin un elettrotecnico, Tonini e Ghetti degli idraulici: nessuno era specialista esperto di tutti i problemi, la cui soluzione andava, prudentemente e doverosamente, affidata a un collegio di esperti nelle singole materie di rilevanza.  Questo non fu fatto, anzi si crearono, volutamente, compartimenti stagni. La Concessionaria attraverso i suoi elevati dirigenti tecnici, raccolse, valutò, selezionò e tenne gelosamente per sé, forse per non aggravare il già diffuso allarme delle popolazioni interessate, tutti gli elementi di giudizio; da sola decise su di essi quando erano contraddittori; li occultò, più o meno integralmente, agli organi pubblici di controllo; è questa condotta antidoverosa che ha creato le premesse del catastrofico evento.

I funzionari amministrativi, che autorizzavano i micidiali invasi, dubitavano che fosse in atto un movimento franoso che poteva portare al distacco improvviso di mezza montagna. Loro non erano in grado di sciogliere il dubbio e nessuno lo sciolse mai.  Nonostante ciò, supinamente accedendo alla grave concorrente imprudenza di Penta e della Concessionaria, acconsentirono che il livello del bacino fosse innalzato sino a quote che mai si sarebbero dovute raggiungere con una montagna che camminava e che aveva già percorso oltre quattro metri incontro all’acqua”.

Inoltre aggiunge che: “(..) l’attività di sfruttamento delle acque mediante bacini di ritenuta, pur comportando gravi rischi per i terzi, è lecita in funzione del beneficio che ne ricava la collettività. A causa dell’obiettiva pericolosità, il legislatore ha posto una serie di norme dirette a garantire la sicurezza dell’opera e, per rendere più efficaci i controlli, ne ha investito una pluralità di organi: Commissione di collaudo in corso d’opera, Servizio dighe, Genio civile…. Funzione primaria, quindi, è quella di garantire la pubblica incolumità, cioè di intervenire ogni qualvolta venga superato il limite del normale rischio che la costruzione di un bacino comporta. Mezzi di intervento sono, fra gli altri, la non collaudabilità dell’opera, il rifiuto di invasi, la riduzione della quota di massimo invaso, la revoca della concessione.”

Quindi vi erano gli strumenti di controllo e il potere di interrompere la costruzione di un’opera pericolosa ma questi non furono usati, nella vicenda ha pesato l’elemento speculativo e politico che ha permesso alla SADE di realizzare i propri obiettivi a scapito dell’interesse pubblico.

Questo aspetto viene sottolineato dal PM: “In effetti, insorse un affidamento reciproco e, per così dire, circolare. Il Genio civile autorizzò gli invasi fidando nella maggiore competenza del Servizio dighe che aveva concesso il nulla osta; il Servizio dighe diede i nulla osta facendo affidamento particolare  sul parere della Commissione di collaudo; questa si fidò di Penta che era uno specialista in frane; Penta che era due anni che non si recava al Vajont e che sempre disse di un avere elementi sufficienti per un giudizio sul tipo di movimento franoso, si fidò della Concessionaria e dei diagrammi che, periodicamente, venivano inviati a tutti gli uffici; la Concessionaria si difese assumendo di aver ritenuto l’inesistenza di pericolo perché Penta non dava istruzioni e prescrizioni particolari e gli invasi venivano autorizzati. Così tutti violarono il dovere di decidere autonomamente, ‘re cognita’: l’empirismo, l’imprudenza e l’imperizia di ognuno diede un contributo determinante alla catastrofe.”

Chiedere il rinvio a giudizio di nove esponenti di spicco dell’imprenditoria privata e dei quadri dirigenziali della PA fu un atto di coraggio e di amore verso la verità e al giustizia che costò la carriera ad un magistrato onesto.

Le  principali testate nazionali diedero scarso rilievo a tale evento che andava ben oltre la cronaca a causa degli enormi interessi che erano in gioco, le pressioni, le manovre e soprattutto il compromesso per permette all’ENEL di imporre una transazione capestro alle popolazioni e ai comuni colpiti dal disastro: 10 miliardi una tantum per coprire tutti i danni a persone e cose rinunciando ad ogni rivendicazione presente e futura non soltanto nei confronti dell’ENEL ma di qualunque altro responsabile penale e civile: gli imputati, la SADE, lo Stato, tutti.

Uno scandalo nello scandalo è rappresentato dall’attività dell’ENEL che era comunque subentrata nonostante l’impianto non fosse stato collaudato in quanto la montagna era crollata prima: la SADE era palesemente inadempiente anche perché l’impianto era inutilizzabile ma nonostante ciò la politica attraverso questa aberrazione giuridica e morale, salva la SADE e i suoi vertici dalla “giusta rovina” utilizzando il denaro dei contribuenti. Se l’ENEL è disponibile non lo è la MONTEDISON che preferisce fare guerra ai superstiti nella speranza di vincere la causa o trascinarla fino al 1971 anno della prescrizione dei reati che dovrebbe cancellare ogni responsabilità. 

Di conseguenza la SADE avrebbe ottenuto i contributi statali per la costruzione dell’impianto matrice dell’immane catastrofe, avrebbe continuato a percepire gli indennizzi per la nazionalizzazione di quell’impianto: la riparazione degli enormi danni materiali che erano stati fissati a 900 miliardi di lire sarebbe avvenuta a spese dello Stato, che non compie alcuna azione di rivalsa; l’ENEL infine pagherebbe 10 miliardi per liberare il processo dalle parti civili. 

Qui si sta parlando di due enti pubblici che utilizzavano il denaro dei cittadini per coprire i danni prodotti da una società privata alla collettività: purtroppo queste mostruosità in Italia sono ancora praticate in forme più o meno “sofisticate”.

Lo stanziamento di 10 miliardi avviene il 5 dicembre 1967, l’operazione viene preparata e attuata in fretta per l’evidente obiettivo di condizionare il giudice Fabbri che stava scrivendo la sentenza istruttoria, le parti danneggiate addivenendo ad un accordo costringevano il magistrato a temere conto dell’avvenuto risarcimento e ritiro delle parti civili. Venendo meno la presenza della maggior parte dei superstiti nel processo tale clima avrebbe favorito ogni sorta di attenuanti e concessioni.

Molti rifiutano di svendere i loro morti e la loro dignità, c’è da sottolineare che durante il processo i periti di parte civile erano tutti stranieri perché i periti italiani si rifiutarono di assistere i superstiti. 

Quando una parte accettò la transazione con l’ENEL fu l’Istituto confederale di assistenza della CGIL ad assumere il patrocinio gratuito delle parti civili che avevano rifiutato l’accordo.

Questa è la tabella dei risarcimenti proposta dell’ENEL:

  • chi ha perso il coniuge, la moglie o il marito viene liquidata la somma di 3 milioni di lire (valore attuale 45 milioni di lire);

  • chi ha perso un figlio unico viene liquidata la somma di 2 milioni (v.a. 30 milioni di lire);

  • se tra le vittime vi sono altri 2 o 3 figli si scala fino ad 1 milione (v.a. 15 milioni); 

  • a un minore che ha perso un genitore spettano 1,5 milioni (v.a. 22,5 milioni), se ha perso entrambi i genitori gli spettano 3 milioni (v.a. 45 milioni);

  • per un orfano maggiorenne si liquida 1 milione a genitore (v.a. 15/30 milioni).

L’ENEL sguinzaglia i suoi avvocati che vanno di casa in casa a convincere la gente che cede per paura di scontrarsi con dei giganti il cui potere poteva soffocare ogni pretesa di giustizia.

Questa è una delle squallide puntate di una storia triste e vergognosa infatti il Parlamento e il governo propongono una legge per aiutare la ricostruzione e lo sviluppo dell’area così gravemente colpita, potranno accedere a questo tipo di finanziamento statale tutti i titolari – o i loro eredi – di qualsiasi attività economica preesistente alla disgrazia debitamente documentata.

Una iniziativa giusta ma non idonea alla situazione reale dei luoghi e dei superstiti. Immediatamente un’orda di commercialisti, avvocati, faccendieri si avventarono sul territorio per fare incetta di licenze a quattro soldi al fine di ottenere i finanziamenti molto vantaggiosi ma purtroppo poco utilizzabili dai superstiti che per ignoranza o impossibilità davano via quei “pezzi di carta” per loro privi di valore: un bambino privo di genitori non poteva essere titolare di un’attività commerciale; una vedova non poteva fare il barbiere e così via.

Gente senza scrupoli ottenne dallo Stato centinaia di milioni e in alcuni casi miliardi per far nascere aziende, negozi, imprese artigiane ma anche attività false o addirittura morte sin dalla nascita.

Ad esempio la Zanussi di Mel nacque con l’acquisto di una licenza di calzolaio dagli eredi del titolare. 

Fu di nuovo la Merlin a denunciare il losco traffico e la faccenda finì in Tribunale nel 1980: un enorme numero di licenze, incettate da un faccendiere nel comune di Erto completamente distrutto, istruite e legalizzate da un commercialista e un notaio a Pordenone, accelerate nell’ammissione ai contributi da un segretario dell’apposita Commissione: un’organizzazione di stampo mafioso che fu condannata a pene irrisorie.

In quell’area disastrata si insediarono onesti lavoratori e imprenditori ma anche una massa di cinici opportunisti, speculatori e affaristi portatori di una cultura basata sull’avidità e su venali ambizioni.

La comunità del Vajont decimata dal disastro veniva sopraffatta da una nuova torbida ondata che le ha fatto smarrire la propria identità mentre la matrice operativa e morale della SADE & C. è rimasta intatta e si è manifestata molte volte e in molte occasioni fino ai nostri giorni: il ponte Morandi con i Benetton; L’ex ILVA con i Riva; le terre dei fuochi con l’imprenditoria del settentrione…. e a pagare sono sempre i cittadini italiani.

Il processo penale di primo grado terminava il 17 dicembre 1969, il giudice Del Forno leggeva il dispositivo: Biadene, Batini e Violin sono condannati a 6 anni di reclusione (2 dei quali condonati) per omicidio colposo plurimo, sono ritenuti colpevoli per non avere avvertito e disposto l’evacuazione di Longarone; la frana non era prevedibile quindi nessuno è chiamato a pagare i danni.

Il 26 luglio 1970 si apre il processo di secondo grado, il 3 ottobre successivo il Tribunale emette sentenza che ribalta la precedente: sono riconosciuti i reati di inondazione aggravata dalla previsione degli eventi, compresa la frana e gli omicidi. Pene lievi infatti vengono condannati solo Biadene a 6 anni (3 dei quali condonati) e il capo del Servizio dighe del ministero dei Lavori pubblici Sensidoni a 4 anni e mezzo (3 anni dei quali condonati).

In Cassazione il ricorso viene discusso dal 15 al 25 marzo 1971, viene emessa la sentenza sul filo della prescrizione: conferma della sentenza d’appello e riduzione delle pene degli imputati, per un breve periodo solo Biadene sarà ospite delle patrie galere dalle quali uscirà in anticipo dopo aver curato il restauro della biblioteca interna al carcere: si è sempre considerato un fedele esecutore delle disposizioni della SADE.

Nel 1973 il giudice Del Forno viene travolto dall’accusa di concussione per aver pilotato una serie di fallimenti nel periodo in cui era presidente del Tribunale dell’Aquila. Nel 1982 l Corte d’appello di Firenze modifica la sentenza di secondo grado dell’Aquila e condanna l’ENEL e la MONTEDISON a risarcire lo Stato dei danni subiti e la sola Montedison per i danni a Longarone.

Il 19 luglio 1985 nella Val di Stava crollano le colline costituite dai materiali di risulta della miniera di Prestavel di proprietà della Montedison in Trentino: 180 mila mc. di fango e acqua franano alla velocità di 90 chilometri l’ora uccidendo 268 esseri umani tra residenti e turisti a dimostrazione che il Vajont non aveva insegnato nulla.

Nel giugno del 1992 si conclude il processo: 10 imputati vengono condannati per disastro colposo e di omicidio colposo plurimo. Nessuno di costoro ha trascorso un giorno in carcere.

Il Tribunale di Belluno nel 1997 condannava la Montedison a risarcire Longarone dei danni.  La Cassazione obbligava l’Enel a risarcire lo Stato per i beni patrimoniali perduti e i danni ambientali ed economici per la perdita parziale della popolazione.

Arriviamo al luglio del 2000 Amato capo del governo chiude la vicenda con un decreto che prevede il versamento di 77 miliardi di lire per i risarcimenti dovuti dall’Enel e dalla Montedison per i danni patiti da Longarone: tradotto lo Stato paga sé stesso per i danni inflitti da società statali.

È proprio vero che l’Italia è un paese autolesionista con una vena di masochismo.          



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