’universo poetico di Daniela Musumeci nel volume Ricorrenze e altre poesie, edizioni Kemonia, che riunisce quattro raccolte di versi editi dal 2006 al 2021, si articola come un denso “diario d’anima”. Un’anima impegnata nella conoscenza di sé e del mondo. Nella poesia Mattino (Chiarìa d’acqua, 2014) si legge che è compito di ogni giorno/ dotare di senso il giorno, ricerca che dalla adolescenza ribelle alla inquieta maturità ha portato l’autrice a interrogarsi, interrogando l’esistere, e a “ricomporre gli eventi”, “riannodare i fili rotti” (Doveri d’allegria, 2006), “incantarsi a tracciare vite,/ eventi,/ sentimenti” (Chiarìa d’acqua), insomma a “narrare” e a “narrarsi“ poeticamente. Il tono prevalente dei testi è discorsivo-riflessivo o descrittivo-narrativo, con esiti sparsi di vibrazioni liriche o di più pugnace denuncia (anche attraverso l’artificio di anafore e iterazioni) là dove l’ispirazione volta a volta si fa confessione intima e abbandono contemplativo, oppure si alimenta di indignazione per le ingiustizie e l’indifferenza/torpore della società: la presene bruttura epocale… benché -scrive la Musumeci- di colpa/ nessuno parli. Nelle prime due raccolte rivive dell’adolescenza e giovinezza della poetessa la stagione esaltante della “contestazione”, con le sue ribellioni alla morale familiare e borghese (E io ricordo -senza più rabbia- la sua paura [del padre] quando andai a vivere nella comune e come allora non ci capivamo), la liberazione sessuale, e la voglia accesa di trasformazione della realtà, esperienze che fra l’altro le dettano i versi sul nomade mago: estasi e strazio nelle viscere… affanno e appagamento, ma a un tempo pure profeta ombroso di idee/lotta, con il quale fruire vernici e verzure, zolle e fogli fra pleniluni di scirocco e piazze piovose annebbiate da spari. Di quegli anni appassionati e illusi in cui amore mestiere e lotta erano tutt’uno rimarranno, nella successiva solitudine normalizzante e normalizzata del quotidiano e della professione (il mestiere di Socrate tuttavia!), le cicatrici non sanate di una profonda frustrazione d’amore (gli amanti sbagliati ondeggiano dentro la candela) e la memoria/rimpianto (li amo tutti i miei amori passati) di osterie calde di bicchieri di vino e caldarroste, di falò e chitarre, del gran piatto conviviale circolare, delle discussioni su pace rivoluzione guerra e amori. Il fuoco ideale di quella fase ha però continuato a permeare di sé la vita della donna/Daniela, come segnala la lunga collaborazione con la rivista Mezzocielo di Simona Mafai e Letizia Battaglia, e ha conservato vigile lo sguardo dell’autrice sugli sviluppi della società creando nel suo vissuto un singolare impasto di geloso “liberato” isolamento (il suo giardino, le sue piante, i suoi animali) e di compartecipe azione nel sociale, l’uno e l’altra integralmente riflessi nella sua scrittura. Colpisce in molti testi il ricorrere (e il titolo del volume Ricorrenze è quanto mai congruo!) del tema della donna e del sentimento tenacemente coltivato dell’amicizia: tutti gli amici e le amiche che hanno lasciato un’impronta affettiva o ideale vengono ricordati, ma soprattutto figure femminili, determinate nelle scelte e protagoniste di fatto, testarde a suggerire valori, o a tenere desta la lezione del dubbio, come la scrittrice Giuliana Saladino che -annota la poetessa- osservava,/ ci osservava,/ si osservava/ inesorabile/ e dolce, o ancora, benedette dal carico della profezia, come Simona e Miriam Mafai. La “donna” è ora idealizzata attraverso immagini naturali (Donna); ora chiamata a “testimone” di terribili situazioni storiche, dagli inizi del ‘900 a oggi (Colomba dalle ali impeciate), e di precise battaglie politico-civili (Mexico, Siderea, Partigiane, Compagni, Maestra), compresa la tragica, cruenta, emancipazione dall’autorità paterna e dalla possessività del maschio (Come le Urì, Nell’androne); ora è fieramente celebrata per il suo essere uscita di casa, dal guscio, dal silenzio: donne che scrivono, parlano… s’incontrano… discutono e gridano… fanno. E non si fermano (Le donne scrivono, A un’amica giornalista), o è semplicemente ammirata nel suo dignitoso e “anonimo” profilo quotidiano (l’elegante Signora dal cappello a falde) ma dalla nobile eredità per chi sa raccoglierla: l’appassionato amore/ per alberi fiori animali/ per tutto quanto continua/ a viverle intorno/ ostinatamente. L’attenzione dell’autrice alla contemporaneità focalizza, con opportuna violenza o accoramento di linguaggio e di immagini, anche la mafia (Via D’Amelio 19 luglio 199, Via dei Gergofil estate 1993, Doli pirotecnici) e l’attuale “geografia” della fame e dei conflitti (I cognomi degli dei, Spago, Gaza, Nitrato d’ammonio) con il dramma dei soldati bambini addestrati a tuffarsi nel sangue/ quasi fosse una festa, la diaspora dei profughi, e Beirut la magnificente/ bruciata esplosa. Innumerevoli poi i testi in cui torna il problema dei migranti: dal suonatore slavo di fisarmonica questuante sotto balconi distratti e serrati, al signore tamil impiccatosi perché disoccupato, alle centinaia di innocenti affogati, spiaggiati come pesci avvelenati… asfissiati, o in fila nella tormenta per una gamella gelata, o scacciati con ruspe e gas dai loro attendamenti di fortuna, o morti bruciati nei ghetti per raccoglitori di arance e pomodori: piana molteplice di innominato assassinio- scrive la Musumeci con riferimento al fatto di cronaca che coinvolse nel 2017 immigrati dal Mali. E affiancati a loro gli operai morti sul lavoro (Mater matuta) su una terra di infamia/ e d’infame vergogna, e la distruzione dell’ambiente e del pianeta che “soffoca” per una violenza esercitata brutalmente alla pari su altri uomini e sulle creature della natura (Piango l’innocenza dei castagni, Tiglio, I can’t breathe). Ma “oltre” tutto questo, e in oppositivo ribaltamento, la poetessa nutre nella sua anima una fame e una sete di bellezza (Da qui nessun altrove) e una nostalgia etico-religiosa della vita pregna di se stessa (Dialogo dell’anima col suo angelo) che la fanno indugiare, talora in una sorta di catalogo-inventario supportato dalla tecnica dell’haiku, su aspetti, esseri, momenti del mondo naturale: dal suo giardino e cani e gatti amati alla Sicilia marina e montana nel variare delle stagioni; o su frammenti di vita quotidiana isolati nella loro nuda, e anch’essa confortante, semplicità. Importanti dunque l’abbondante nominazione, che è conquista spirituale, di piante (eucalipti, acacie, ibisco, gelsomino, pomelie, magnolie, buganvillea, glicini, viole, peonie e, più intensamente, placidi castagni, docili ulivi, ingenui albicocchi, larici azzurri…) e di animali (gabbiani, rondini, tortore, falchi, merli, quaglie, tordi, passeri, civette, volpi, lepri, usignoli…) e tutte -come le chiama l’autrice- quelle pause verdi che aiutano e insegnano a sapersi/ ed essere/ nel sapore delle cose. E non mancano vaghezza di squarci e pregnanza di senso nella descrizione: foglie di tiglio in controluce, tremolio di germogli, la luna che s’accomoda addosso a mo’ di scialle straccetti di nuvole spente, il mare che trema per vene e dita di luce, il mattino stillante di uccelletti appena svegliati, i sentieri croccanti di ricci di castagne, l’aria d’agosto percorsa da zirli, frulli, ronzii, il bosco che fuma per vapori terragni, le Eolie di sapida salsedine, l’Etna che ora è spumoso di neve fresca, ora esplode incandescente fino alle placide stelle, ciliegi, mandorli e meli che danzano al grecale come gonne fiorite di ragazze… Di contro a tutto questo un mare oleoso invece e una terra arsa e piagata dall’uomo. Allo stesso modo con una città, dove l’aroma languido dell’oleandro non riesce a soffocare le flatulenze della spazzatura, le motorette ruggono in rotta e ossessive conturbanti sono le ululanti sirene antifurto, contrastano il campo setoso che attende cuccioli e bambini ruzzolati nel sole/ cantando fra le spighe, le mani intrecciate di tre amiche che cantano una canzone, il guizzo furbo di un bambino/ allegro tra gli scogli, favole e racconti che a Natale crepitano attorno al focolare per la meraviglia dei piccoli, il bimbo chino sul foglio che all’asilo disegna un universo di meraviglie/ inconsapevole della sua potenza, le finestre illuminate per il desco condiviso o vezzose come spose/ agghindate con gonfi veli/ di lino ricamati, aperte su una quieta domesticità che fa confessare all’autrice che sempre [le] s’aggroppa in gola/ una remota nostalgia di gioie altrui/ sconosciute o desuete. E ancora tutti i fruscii e bisbigli presenti nella poesia Fruscii: di un dito sulla corda di una chitarra, delle labbra di un bimbo che sogna/ oppure di un vecchio che racconta, fruscii di pagine scorse, di panni distesi, di petali, di una matita su un foglio, di semi (reali e metaforici) sotto la zolla, possibili a udirsi solo se si impara a ignorare il rumore, e che sono nella loro piccolezza e proprio per la loro piccolezza risacralizzazione dell’esistere. La gnome finale è infatti significativamente riassuntiva e propositiva: Sono sussurrati i nomi della libertà/ urlate le gerarchie del potere./ Tu, ascolta i fruscii. Si avverte nell’insieme dei testi di Ricorrenze, attraverso la struggente e intenerita panoramica fin qui vista -struggente e intenerita per l’altalena assidua dell’anima della Musumeci, nel confronto col reale, fra slanci e disincanto, tenaci riprese e nuove inesorabili delusioni (la desolazione che dilaga [è] landa senza direzione)- si avverte, dicevo, la voglia di innalzare e assorbire l’esistenza nella dimensione di una “certezza” di trascendenza, quel regno della quietudine cui si è avviato morendo papa Woityla (Ad una morte felice). Regno che quanto ai destini sulla terra, di fronte al mistero del dolore, addita il segreto della croce, che viene definita offerta di sostituzione, rilucente di compassione, oltre che segno smagliante di equità. E in questa direzione si sviluppano ne “La quinta dimora” la sezione Quinta dimora: stanza di vigilie e in “Chiarìa d’acqua” la riscrittura del Cantico delle creature, dove si chiede che ogni gesto di dono/amore verso l’altro sia preghiera fino al momento in cui -scrive la poetessa- si dissolva il mio io/ nella pallida ombra di Dio. E tuttavia questo esito ultimo sembra più una accorata invocazione a se stessa e a Dio (Convalescenza) che un approdo concluso, rispetto invece all’intuitivo appagante franare e “disciogliersi” e tornare, attraverso la morte, nel ritmo pur esso divino, universale e ciclico, della vita cosmica, come paiono segnalare, fra gli altri, i testi Palingenesi, Cercatemi, Ti discioglierai, e la poesia Omaggio a Santoka che chiude il volume, nella quale l’interrogativo: E’ mia quest’ombra che dilegua nella sera?, sembra addensare solo, e dolorosamente, domande irrisolte.
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