Siamo anche noi qui a giocare ai giornalisti; qualcuno lo è, o lo è stato, se non tale almeno pubblicista, e dunque guardiamo l’empireo dei professionisti come a sentircene parte: ciò che viceversa non siamo, non foss’altro che per le condizioni in cui ci muoviamo. 

Tuttavia, la domanda oggi urge: chi è il vero giornalista? O almeno, come dovrebbe essere? D’acchito viene alla mente una figura maschile, anche se non sono mancate penne famose femminili già dall’inizio della professione strutturata, una per tutte in Italia, la velenosa Matilde Serao, che tante colleghe gossippare ha ispirato: per esempio una omonima, quella Matilde Amorosi autentico spauracchio dei vip (una sua vittima fu Alberto Castagna).

Il problema, con le donne che esercitano, è che vengono spesso relegate in due categorie prevalenti: cronaca rosa o allure barricadero, alla Fallaci. La genia di quelle televisive, partita dalla austera Angela Buttiglione, è divenuta una passerella di botox. Naturalmente sono esistite eroine idealiste come Ilaria Alpi (non la sola), ma poco conta, quando si tratta di influenzare la pubblica opinione: il pennaiolo è maschio.

Siamo cresciuti alla scuola che vedeva contrapposti Indro Montanelli a Enzo Biagi, passando da Vittorio Buttafava, quantomeno nel settore generalista, a parte lasciando gli specialisti di finanza, economia, sport e quant’altro di specifico.

Indro (1909/2001), con il suo toscanissimo cinismo intriso di un distacco storico da ogni forma di sentimento (esibito, almeno), marito di Colette Rosselli (una amabile e sofisticata signora nota per le rubriche di consigli), scrisse anche mirabili libri di storia, affiancato alternativamente da Mario Cervi e Roberto Gervaso, che invogliano a buttare al macero i Bignami e divertirsi con dei personaggi ridisegnati come attori della Commedia dell’arte; il bolognese Enzo (1920/2007), dalla prosodia mesta e le vedute più progressiste, ebbe a patire qualche ukase durante il governo Berlusconi, ma è pur vero che l’età della pensione sullo schermo era scaduta da un pezzo, circostanza a cui i nostri eroi sembrano non volersi rassegnare.

Il milanese Vittorio (1918/1983), che in pochi ricordano, da ultimo pubblicava un rubrica domenicale, girata su tutti i principali quotidiani d’epoca, con rivelazioni esplosive (per esempio sulla coppia reale Umberto/Maria José) che farebbero scalpore ancor oggi; e coniò il detto” un male non ne assolve un altro”, bollando il vezzo, anche di molti suoi colleghi, specialmente gli odierni, di giustificare una malefatta additandone una diversa.

Potremmo fare molti nomi che, come sempre, lasciamo a ciascuno di spulciare nella storia del nostro giornalismo, e volgiamo lo sguardo all’estero, a un paese trascurato e ritenuto tra i più depressi del globo: Haiti.

Jean Dominique era un creolo nato nel 1930 nella capitale Port  - Au – Prince; dopo studi e gavetta negli USA, tornò in patria anche per attivare l’identità locale, soprattutto con una emittente radiofonica in lingua del posto,  mortificata dai dittatori Duvalier (il padre François, detto Papa Doc,  e il figlio Jean Claude, appellato Baby Doc, che dovette riparare in Francia); ma non le mandava a dire a nessuno, compreso il presidente Aristide, salito e sceso dal potere, anche secondo le pressioni dell’ONU: un pantano.

Nel bel mezzo di esso, Dominique venne ucciso a colpi di arma da fuoco, nel 2000. Una storia neutra, attraverso la quale farsi un’idea del costo di un giornalismo libero, si può apprendere con la visione del film “The agronomist” di Jonathan Demme, musiche dello strepitoso  haitiano Wyclef Jean.

Un giornalista valido e onesto non è per forza quello assassinato ma, se la verità gli sta a cuore, vivrà sempre scomodo.