di Lucia De Sanctis

Sono circa cinquanta dall’inizio dell’anno i suicidi tra uomini e donne che indossano un’uniforme. Un dato preoccupante e al tempo stesso un fenomeno di cui si parla poco. 


Professor Musacchio, perché secondo lei l’aumento dei suicidi in chi indossa una divisa è così preoccupante? 

È molto preoccupante. Il suicidio è la prima causa di morte nelle forze dell’ordine italiane. Chiunque pensasse che sia la criminalità purtroppo si sbaglia. A mio parere siamo di fronte a un allarme sociale che lo Stato non può più ignorare. Occorre contrastare efficacemente e rapidamente questo fenomeno assicurando un efficace supporto psicologico agli uomini e alle donne in divisa. La prevenzione in questo contesto è decisiva e non può assolutamente trascurare le situazioni di disagio che vive chi indossa una divisa. I primi segnali di disagio devono essere l’occasione per affrontare i problemi di chi vuole aprirsi e trova di frequente ostacoli e gerarchie che aumentano l’isolamento e quindi il percorso che porta poi verso il male oscuro.


Secondo lei quali possono essere i fattori scatenanti di questa escalation?

Ritengo esistano correlazioni fra suicidio e indicatori sociali. Gli studi di settore ci confermano che la metà dei suicidi è correlata proprio a tali determinanti. Credo vi sia una forte componente non-psichiatrica di moltissimi suicidi. A chiarire quest’assunto è l’ultimo suicidio di questa drammatica serie che però ci ha lasciato una chiave di lettura su cui dovremmo riflettere. Pochi giorni fa un graduato della guardia di finanza si è ucciso con la pistola d’ordinanza, lasciando una missiva alla stampa. Una mail inviata a una testata giornalistica (Infodifesa.it) dove con estrema lucidità spiega le ragioni che l’hanno indotto a al suicidio: “Preciso che questo mio gesto è legato esclusivamente alle vicende lavorative”. “Nella guardia di finanza c’è una tensione altissima. La gerarchia vuole che agli occhi dell’opinione pubblica l’immagine del corpo appaia perfetta, senza interessarsi minimamente del personale”. E prosegue: “Sono stato impiegato per più di venticinque anni in sala operativa prendendo una specializzazione e diverse qualifiche necessarie per poter operare in settori di servizio specifici ed ora, dopo aver ottenuto il trasferimento a Viterbo (dopo quasi 29 anni di servizio e innumerevoli domande presentate) sono stato destinato a un settore di servizio completamente diverso, che non ho mai fatto… questo nuovo impiego a cui sarò destinato ha suscitato in me una forte tensione emotiva dovuta anche allo stress che ho accumulato nel corso degli anni di servizio poiché sono stato impiegato anche in turni di 12/18 ore continuative o senza rispettare l’intervallo tra un turno e l’altro che deve essere di 11 ore”. E conclude: “Ai miei funerali non voglio che ci sia la rappresentanza della guardia di finanza ma solo gli amici in abiti civili, che ho conosciuto nel corso degli anni travagliati trascorsi nel corpo”.


Che cosa possiamo dedurre da simili parole scritte da un militare proprio prima di togliersi la vita?

Che vi sono fattori scatenanti su cui vanno fatti ricerca e studi proprio allo scopo di prevenire simili condotte di autolesionismo. Ci dice che il lavoratore è una persona umana e come tale avente una dignità che va rispettata e tenuta in debita considerazione dal datore di lavoro. La dignità è un diritto individuale del lavoratore costituzionalmente garantito. Bisogna indagare sulle lacerazioni identitarie vissute dai militari e dalle forze dell’ordine. Sullo stress e i sentimenti d’impotenza nell’esercizio delle proprie funzioni. Sulla perdita del lavoro o delle mansioni per persone che sanno di non potere trovarne un altro, spesso, a causa della loro età. Sui casi di umiliazione, bullizzazione, isolamento e umiliazione nei luoghi di lavoro. Sono tutti elementi che vanno analizzati e studiati nel ruolo che rivestono nella determinazione al suicidio.


Quali sono i corpi maggiormente colpiti?

Guardi riporto i dati forniti dall’Osservatorio suicidi in divisa nel 2021. Sono stati segnalati 57 casi, tra cui il triste record spetta all’Arma dei Carabinieri con 23 militari, seguita dalla Polizia di Stato con 8 casi e 5 casi della Guardia di Finanza. Nel 2020 il trend è stato in decrescita con 51 casi tra questi 15 nell’Arma dei Carabinieri, 9 nella Polizia di Stato e 6 nella Guardia di Finanza. Nel 2019 sono stati addirittura 69 i casi totali di suicidio un andamento che in termini percentuale sembrerebbe di gran lunga superiore a quello della popolazione civile e senza dubbio a qualunque altra categoria professionale. In media ogni 5 giorni un appartenente alle forze dell’ordine si toglie la vita, ma il numero potrebbe essere addirittura superiore poiché non tutti i casi sono comunicati e resi pubblici, spesso per espressa volontà delle famiglie.


Cosa si potrebbe fare per provare ad arginare in qualche modo questo fenomeno?

Guardi siamo di fronte a numeri che fanno paura e che devono far riflettere e far assumere decisioni incisive sul fenomeno. È senza dubbio giunto il momento di un serio e opportuno monitoraggio del fenomeno e delle sue cause, al fine di individuare misure tempestive ed efficaci per porre fine a questa drammatica tendenza che oramai inesorabilmente coinvolge le nostre forze dell’ordine e i nostri militari. È necessaria una ricerca scientifica e tecnica a livello multidisciplinare. C’è bisogno di un percorso riabilitativo, di un supporto psicologico che porti le possibili vittime a parlare, confidarsi e chiedere aiuto. Non può e non deve accadere che chi chieda aiuto poi subisca limitazioni sul lavoro o peggio sia discriminato e abbia problemi con la carriera. È necessario agire al più presto per fermare questa incontenibile strage silenziosa.

 

Vincenzo Musacchio, criminologo forense, giurista e associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore indipendente e membro dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nella sua carriera è stato allievo di Giuliano Vassalli, amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, magistrato italiano conosciuto per aver guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni ’80.  È oggi uno dei più accreditati studiosi delle nuove mafie transnazionali, un autorevole studioso a livello internazionale di strategie di lotta al crimine organizzato. Autore di numerosi saggi e di una monografia pubblicata in cinquantaquattro Stati scritta con Franco Roberti dal titolo “La lotta alle nuove mafie combattuta a livello transnazionale”. È considerato il maggior esperto di mafia albanese e i suoi lavori di approfondimento in materia sono stati utilizzati anche da commissioni legislative a livello europeo.