La beneficenza è un dovere etico a prescindere da eventuali dogmi religiosi, poiché con essa si esprime e conferma l’appartenenza al genere umano di ciascuno di noi. E non si ammette che un proprio simile versi in condizioni tali da non poter far fronte alle esigenze basilari della vita. Non si ammette nemmeno che non sia garantito un servizio a chi versa in condizioni particolari, e dunque si è sempre ben disposti a contribuire anche verso associazioni che garantiscano quei servizi. Noi oggi la chiamiamo solidarietà del “welfare privato”, visto che quello pubblico risulta tra i più grandi assenti ingiustificati.

E’ difficile comprendere come possano coniugarsi le due cose: il non ammettere che i propri simili se la passino troppo male, ma ammettere che i governi se ne infischino. Si tratta di una dissonanza cognitiva che molti provano a risolvere in questo modo: i governi non hanno abbastanza soldi (ed è vero), quindi meno male che se ne possano occupare i cittadini stessi.

Tuttavia, non basta a far svanire quella sensazione di disagio che provoca la dissonanza cognitiva, perché in effetti la risposta è puro pensiero magico e non risolve l’assurdità della situazione.

I cittadini che a malapena riescono ad arrivare a fine mese si autotassano di qualche spicciolo. Tanti lo fanno anche ogni mese tramite un addebito SEPA permanente che la ONLUS di turno preleva dai loro conti in automatico; quei cinque, dieci, trenta, euro o più. Per un adozione a distanza, per la mensa solidale, per la propria parrocchia, per l’associazione D.i.Re. dei centri anti violenza, e cosi via. E qualche altro spicciolo capita di devolverlo per strada; non tanto a quelle culture che chiedono l’elemosina per mestiere, ma a tanti altri soggetti e connazionali che attraversano periodi bui, o molto bui.

Ci sono i cittadini più facoltosi, del ceto medio quasi scomparso, che possono fare di più. Pur privandosi indubbiamente di qualche comodità o “lusso”. E quegli spiccioli mensili diventano magari qualche centinaio di euro costante.

Due categorie encomiabili, perché fanno una beneficenza che presuppone una privazione concreta e non meramente possibile: chi ha meno rinuncia a qualche cena fuori; chi ha di più comprerà qualche capo firmato in meno. Non potrebbero, insomma. Ma evidentemente a questi cittadini pesano di più i problemi dei propri simili, rispetto a qualche rinuncia.

La terza categoria è ancora più rara. La loro beneficenza, per loro fortuna, non comporta rinunce concrete ma solo possibili o al limite del probabile. In genere sarebbe denaro superfluo, magari da versare sulle tasse. Paradossalmente, nonostante la rarità, la loro beneficenza può essere verosimilmente maggiore della somma delle due precedenti categorie. Le ragioni risulteranno ovvie, spero.

C’è poi la quarta categoria, la quinta, e così via. Ma noi ci fermiamo alla quarta, dove abbiamo gente come la Ferragni, che oltre a non dover sopportare rinunce, come per la categoria precedente, e nonostante l’entità considerevole della beneficenza, può anche contare su un cospicuo ritorno di immagine, simpatie, consolidamento del brand e del proprio progetto imprenditoriale. Chi si occupa di marketing saprà di cosa parlo, e saprà anche che alla fine il ritorno potrebbe essere maggiore dell’esborso.

Queste ultime categorie sono tuttavia le uniche ad apportare anche un ulteriore contributo: l’effetto emulazione dei loro ammiratori. Gente comune, appartenente soprattutto alle prime due categorie, che nel caso della Ferragni si risolvono nell’incrementare di una frazione la sua cospicua donazione, dacché lei stessa sarebbe in grado di coprire tale frazione nascente dallo slancio emulo-emozionale degli ammiratori per la loro beniamina (ancorché per la causa).

Altre similitudini si possono cogliere nelle iniziative come le Telethon (maratone televisive) per raccolta fondi di vario tipo, con una passerella di personalità facoltose di ogni genere che, a conti fatti, se anche loro partissero con l’idea di incidere un po’ di più nei loro rispettivi portafogli – e pur sempre irrisoriamente – la raccolta complessiva risulterebbe sempre superiore a quella degli spettatori. Ma senza scomodare questi ultimi, insomma senza necessità di Telethon di alcun genere.

E’ una questione etica: se chiedo agli altri di fare uno sforzo, il mio deve essere perlomeno qualitativamente, e non quantitativamente, identico a quello che sto chiedendo (se non maggiore!). Questo si chiama esempio, il resto sono chiacchiere. Pertanto, se le prime due categorie di donatori “veri” rinunciano sempre a qualcosa quando fanno beneficenza, quantomeno i loro beniamini dovrebbero arrivare a una soglia di rinuncia simile, per poter dire: «Stiamo donando davvero anche noi, mica elargiamo il superfluo del superfluo, eh?! Che magari poi torna in altre forme».

Naturalmente si da per scontato che la rinuncia non sia quella dell’ennesima villa che avrei comprato da qualche parte. O dell’ennesimo jet personale. O dell’ennesima collina, montagna, paesello, e così via. Quindi se non vale alcun limite, allora tutto questo mio discorso cede e diventa: tutti coloro che fanno beneficenza stanno rinunciando concretamente a qualcosa. Sta bene così! Confiniamolo a un discorso relativo che non distingua tra donatori che si sacrificano e donatori per circostanza, imbarazzo, interesse, etc., i quali potendo fare di più – e molto di più – si liberano alla fine di qualche spicciolo. Anche perché la cattiva notizia non è propriamente questa (poi fate voi...). Ad ogni modo non è la peggiore.

La beneficenza è sinonimo di carità, elemosina, e lede la dignità umana (per chi ancora ne ha  qualche brandello); è denuncia di una gravissima carenza dello Stato, che è quella di far fronte alle situazioni individuali che richiedono assistenza economica, servizi, cura della persona. Non dimentichiamo questo!

E’ lo Stato che ha il dovere Costituzionale di munirsi dei quattrini necessari per fare ciò che stanno facendo i privati di quelle categorie. E questo significa che non può permettere ad alcune di quelle categorie di accumulare una ricchezza tale da poter gestire privatamente il proprio welfare. Benefattori, poi, che dovrebbero iniziare motu proprio, e senza che il governo (incapace) si decida a obbligarli, ad adeguare puntualmente all’inflazione gli stipendi delle loro centinaia di migliaia di dipendenti. Lo fanno? Lo stanno facendo in questo difficile periodo? Ecco, questo sarebbe necessario ancor prima di fare i benefattori.

E’ stato alzato solo un altro lembo della coperta. Ma rimaniamo sul pezzo e cerchiamo di capire perché lo Stato non fa il proprio dovere. Perché lo Stato non esegue un’opportuna tassazione per dotarsi del welfare pubblico necessario che ogni momento di crisi richiede. Che si chiami tassazione progressiva, patrimoniale, e che segua una limitazione all’accumulo di ricchezza, poco importa. Di strumenti e strategie ce ne sono un’infinità, e tutte portano a scontentare la platea che i governi non vogliono (possono) scontentare.

La platea, come ricorda l’ultimo rapporto Oxfam, è quella del 10% più ricco del paese, che nell’ultimo anno ha anche aumentato la sua ricchezza dell’1,3%, erodendo e creando ulteriore divario e candidati alla povertà. Per ora siamo a 2 milioni di persone in stato di povertà assoluta ai quali quel 10% deve fare la beneficenza (non lo Stato, eh?… quel 10%...), oltre all’altro 80% che la beneficenza la fa pure ma con sacrifici. In media, tra i comuni mortali, il valore ISEE si è ridotto del 48%; mentre il 5% della popolazione detiene più ricchezza di tutto il resto del paese messo insieme.

Sono numeri impressionanti! Ditemi voi.

Però la beneficenza facciamola fare ancora, e soprattutto applaudiamo! Lasciamo che quel 10% ponga qualche pannicello caldo alle situazioni disastrose del paese, nei modi, tempi, simpatie e quantità, che il loro buon cuore deciderà di volta in volta.
Magari, se il loro buon cuore reggesse, potremmo chieder loro di aggiungere qualcosa di altrettanto utile: che facciano come “timidamente” dichiarò Bill Gates alla CNN nel 2018: «I super ricchi dovrebbero pagare tasse significativamente più alte». E che lo ripetano tutti i giorni nei loro profili social e canali mediatici, lo URLINO più di quanto rendono pubbliche le loro intenzioni di donare.

«Allorché le ricchezze si restringono tra poche mani, allorché pochi sono i ricchi e molti sono gli indigenti, questa felicità privata di poche membra non farà sicuramente la felicità di tutto il corpo; anzi […] ne farà la rovina». Con queste parole del nostro Gaetano Filangieri, grande giurista del Regno di Napoli, che ispirò anche la Costituzione americana e rafforzò i concetti del suo eminente contemporaneo Rousseau, lascerei i nostri amici della quarta categoria e oltre (e un po’ anche della terza...).


📸 base foto: Particolare del dipinto “Giustizia, Carità e Prudenza” (1664), Elisabetta Sirani – Foto di Warburg, Wikipedia (licenza CC3)