L’assoluzione avviene con la formula se “il fatto non costituisce reato” quando sussistono tutti i presupposti oggettivi, ma manca l’elemento soggettivo (dolo, colpa, preterintenzione); quando manca uno degli elementi oggettivi che integrano la condotta ai sensi della fattispecie incriminatrice, ad esempio, la qualifica ricoperta dall'agente richiesta dalla norma affinché se integri reato; quando il reato sussiste, ma sussistono delle cause di giustificazione.

Siamo quindi di fronte ad ipotesi in cui l’imputato ha agito commettendo reato ma per una ragione che potrebbe giustificare la sua condotta ed eliminare l’antigiuridicità rendendo il fatto penalmente non rilevante.

È bene ricordare che gli imputati erano accusati del delitto di cui all’articolo 338 del codice di penale: violenza o minaccia a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Per l’accusa, dunque, erano tutti colpevoli di aver trasmesso ai governi in carica tra il 1992 e il 1994 le minacce provenienti dai vertici Cosa nostra.

Per la sentenza di primo grado, i mafiosi Bagarella e Cinà e i carabinieri Mori, De Donno e Subranni recapitarono il ricatto mafioso ai governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi; il medesimo Bagarella e Dell’Utri invece trasmisero le richieste al primo esecutivo di Silvio Berlusconi.

Scegliendo due formule diverse di assoluzione, dunque, la corte d’Assise d’Appello considera diversi i due segmenti del processo. Assolvere i carabinieri “perché il fatto non costituisce reato“, vuol dire che il fatto c’è, è stato commesso ma probabilmente senza dolo, neanche nell'ipotesi eventuale. In sostanza mancherebbero la volontà e la colpevolezza di infrangere la legge.

Per la Corte palermitana Mori, Subranni e De Donno aprirono effettivamente un canale di comunicazione con “Cosa Nostra” ma l’obiettivo non sarebbe stato agevolare la mafia o far piegare le istituzioni al volere dei boss.

In attesa delle motivazioni posso solo dire che le sentenze, piacciano o no, si rispettano sempre. Siamo comunque ancora di fronte ad una sentenza non definitiva. Ritenendo ci sarà il terzo grado di giudizio e in quella sede si porrà fine a una vicenda processuale che ha tenuto banco nell'ultimo ventennio.

Ciò che non può essere cancellato è l’aspetto etico della vicenda.  Non mi è mai piaciuto l’assunto: “Il fine giustifica i mezzi”. Ci sono condotte che non si devono mai porre in essere. Lo Stato non può e non deve mai trattare con la mafia a nessun livello, neanche interlocutorio. Non c’è fine morale che giustifichi l’immoralità. La politica è innanzitutto etica. Il politico deve sapere che il crimine si combatte non si agevola mai a nessun livello neanche ipotetico. 



Vincenzo Musacchio, giurista, criminologo e associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nella sua carriera è stato allievo di Giuliano Vassalli, amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, magistrato italiano conosciuto per aver guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni ’80.