Adriano Madaro (Lao Ma per gli amici cinesi) è un giornalista italiano esperto di Cina dove in 45 anni, dalla primavera 1976 all’inverno 2020, ha compiuto 216 viaggi,  visitando in profondità tutte le province e le regioni, dal Nordest allo Xinjiang, dal Tibet  ad Hainan, dalla Mongolia Interna allo Yunnan. Nella sua intensa attività di giornalista sinologo ha scritto oltre mille articoli per giornali e riviste italiane, pubblicando 30 libri,  ultimo dei quali “Capire la Cina”, un volume di 680 pagine che sta riscuotendo successo  e consensi. Con lui abbiamo registrato questa intervista in occasione del 70° anniversario  della liberazione pacifica del Tibet. 

(A Fuxing bullet train runs along the Lhasa-Nyingchi railway on June 24, 2021  in Shannan, Tibet Autonomous Region of China Jiao Hongtao/VCG via Getty Images) 


Lei ha viaggiato molto in Cina. Quante volte in Tibet? Quali furono le sue prime  impressioni? 
“La mia prima visita risale al 1990, l’ultima al 2013. In tutto sei volte. Lhasa di 30  anni fa era molto diversa, sembrava appena uscita dal Medioevo. Da un punto di vista folkloristico per un occidentale costituiva una grande attrazione, la vita tradizionale dei  tibetani aveva un fascino speciale, ma la loro esistenza era molto dura”. 

                             (Adriano Madaro with Tibetan friends) 

Quale è stato l’impatto più forte che ha avuto viaggiando in Tibet? L’arretratezza del popolo era impressionante, sebbene con un suo forte connotato di  interesse etnografico. Oltre che a Lhasa negli anni successivi visitai Gyantsè, Xigatsè, e  altri piccoli centri fino al Qinghai. Luoghi meravigliosi, indimenticabili. Ma alla metà  degli anni ’90, con l’avvio delle Riforme economiche anche il Tibet fu investito  dall’entusiasmo della modernizzazione. Il problema era di conciliare la tradizione  culturale tibetana con l’introduzione di tecnologie moderne”. E purtroppo non sempre  questo è avvenuto senza scompensi o rinuncia di identità”.

Secondo lei il governo centrale ha fatto un buon lavoro? “Il Tibet era rimasto indietro almeno di un secolo. Bisognava intervenire sulla  costruzione delle principali infrastrutture: strade e autostrade, aeroporti, e soprattutto  la ferrovia così da poter viaggiare da Pechino a Lhasa attraverso le pittoresche regioni  dell’altopiano. Una impresa incredibile. E poi scuole, ospedali, palestre e soprattutto le abitazioni civili per la popolazione in crescita: lo sforzo del governo centrale è stato  immane. Nessuna regione o provincia della Cina ha avuto così enormi investimenti come  il Tibet”. 

Gli occidentali, soprattutto associazioni anti-nazionaliste come “Free Tibet”, continuano da decenni a denigrare la politica cinese riguardo al Tibet. Quale è la sua opinione? “Innanzitutto va sgomberato il campo dagli equivoci storici e politici. Il Tibet è una regione cinese fin dai tempi della dinastia Yuan, XIII secolo. Ma se andiamo indietro nella Storia, già all’epoca della dinastia Tang vi era un rapporto di patronato. Tutte le  carte geografiche della Cina o dell’Asia pubblicate in Europa e negli Stati Uniti fin  dall’inizio del XVIII secolo comprendono il Tibet nell’Impero Cinese come una regione a tutti gli effetti cinese, e ciò è avvenuto senza contestazioni fino al 1949. Perché dal  1950 il Tibet è stato interessato da una campagna diffamatoria contro la Cina che lo  avrebbe “conquistato militarmente”, come se si fosse trattato di una invasione straniera? Solo perché a Pechino era cambiato il regime politico e il Guomindang era  stato sconfitto nella guerra civile, allora il Tibet non era più cinese? Perché falsificare la Storia?” 

Quali sono le responsabilità, e secondo lei di chi? “Il primo responsabile fu il governo britannico che fin dall’inizio del XIX secolo tentò di  strappare il Tibet alla Cina per unificarlo alla sua colonia indiana. Dopo la sconfitta di  Chiang Kaishek si intromisero gli americani istigando il Dalai Lama e i monasteri  buddisti alla ribellione e all’indipendenza. Infine il Dalai Lama tradì l’Accordo “dei 17  punti” firmato a Pechino con il governo centrale nel 1951 e nel marzo 1959, dopo aver acceso la rivolta contro la Cina, fuggì in India da dove iniziò una pervicace attività  anti-cinese al riparo della CIA, il controspionaggio americano che lo finanziò per molti  anni. Questa è una storia poco conosciuta in Occidente e ancora oggi fortemente  strumentalizzata soprattutto dal governo americano.” 

Cosa augura ai tibetani per il 70° anniversario della liberazione pacifica del Tibet che  si celebra quest’anno? “Auguro la pace e la concordia con le altre 55 etnìe della Cina. Soprattutto alle giovani  generazioni, siano esse classe dirigente, oppure monaci, pastori, contadini, operai, tutti  partecipi della grande trasformazione cui anche il Tibet ha beneficiato, auguro di  contribuire a far progredire il loro Paese e l’umanità intera sulla strada del benessere  sociale. Nel rispetto delle diversità di etnìe, lingue, costumi e fedi religiose. Il 70°  anniversario della “liberazione pacifica del Tibet” deve essere un capitolo condiviso nella  grande Storia della Cina”. “Oltre ad Adriano Madaro, anche Dechen Shak-Dagsay, la famosa cantautrice  contemporanea dei tradizionali mantra buddisti tibetani, ha espresso gli auguri per il  70° anniversario della liberazione pacifica del Tibet attraverso una canzone intitolata  Amaleho che rappresenta la voce della gioia e della felicità. Dechen Shak-Dagsay vive in Svizzera, motivo per il quale il videoclip della canzone è  stato co-prodotto sia nella repubblica elvetica che in Tibet. Tale videoclip oggigiorno  rappresenta il nuovo volto del Tibet ai quali abitanti sono giunti i migliori auguri da  parte dei tibetani residenti all’estero.”