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In questa seconda parte ci occuperemo del legame tra libertà occupazionale e retribuzione. Non dimentichiamo ciò che abbiamo già appreso dai vincoli costituzionali per fissare il significato del termine lavoro (in ordine d’importanza):

  1. è fondamentale per l’uguaglianza e l’espressione del cittadino nella vita del paese

  2. non deve ledere l’integrità fisica e morale del cittadino

  3. è una scelta libera, e può essere manuale, intellettuale, morale, spirituale

  4. lo Stato deve rimuovere qualsiasi ostacolo che limiti questa libertà

  5. è necessario per la collettività

Costituzionalmente il lavoro è dunque molto più di quello che comunemente e superficialmente si crede. Spesso si sente parlare di classifiche per importanza, o prestigio. Sovente accade come chiacchiericcio, finendo per sminuire attività non comprese o ritenute inutili, o che semplicemente non piacciono a chi le critica. I padri costituenti non la pensavano per fortuna così, e hanno voluto imprimere al senso di questo termine la piena realizzazione del cittadino!

Il lavoro, infatti, è questo: soddisfazione personale, senso della vita, identità, partecipazione sociale, contributo economico. E dunque è su queste cose che è stata fondata la Repubblica, implicando in esse evoluzione dell’uomo e crescita del paese.

L’espressione “contributo economico” che ho posto in grassetto va però intesa nel senso corretto. Con il suo lavoro il cittadino esprime il suo contributo alla vita del paese a prescindere dal compenso, in quanto è l’attività in sé, qualunque essa sia, che lo rende cittadino attivo e  degno partecipante all’organizzazione del paese come previsto dall’art. 3 Cost. Ciò avviene per la banale costatazione che qualunque attività determina anche un valore economico per qualcuno, che può non essere necessariamente il lavoratore. Si pensi all’esempio dei casalinghi fatto nella puntata precedente.

Basterebbe questa ragionevole evidenza per escludere quel corto circuito che avevamo ventilato proprio in chiusura dell’articolo precedente, laddove al diritto fondamentale della libertà occupazionale si poteva opporre quel vincolo di dover percepire un compenso in denaro. Lo vedremo ancora meglio tra poco, introducendo alcune norme costituzionali del Titolo III, ma nel frattempo dobbiamo concludere la nostra ricognizione su questi elementi fondanti.

Il concetto dicotomico lavoro=denaro non doveva esistere in sede di A.C. (Assemblea Costituente), e in effetti si è fatto di tutto affinché non si pensasse che si stesse fondando una Repubblica sul denaro! Il dibattito fu molto coinvolgente e vivace, impossibile (purtroppo!) trovare la stessa qualità dialettica e di confronto tra i politici odierni. Durante l’assemblea si posero tutte le riflessioni e interpretazioni autentiche per confermare alla fine la scelta dei termini “lavoro” e “lavoratori”.

Occorreva fugare ogni ambiguità interpretativa su quel “fondare sul lavoro” la Repubblica. Non si voleva restringere lo Stato a una classe sociale, ponendo anche problemi in ordine a lavorativi maggiormente produttivi rispetto ad altri, e dunque spianando la strada a future disuguaglianze sociali.

Nel lungo dibattito sugli emendamenti proposti in A.C. per l’art. 1 Cost., la riflessione più pregnante provenne probabilmente dall’On. Fabbri (gruppo misto) nella seduta del 22 marzo 1947 (A.C., pag. 2370). Per superare le questioni interpretative egli proponeva di sostituire le parole “fondata sul lavoro” con le parole “fondata sulla giustizia sociale”, e sostituire il termine “lavoratori” con “cittadini”. Questo era molto ragionevole e avrebbe tagliato la testa al toro, ma come fu chiarito ampiamente durante quella seduta (cfr: in particolare Fanfani, pag. 2369, e Ruini, pag. 2375) il termine “lavoro” è il più idoneo per estendere quella “giustizia sociale” dall’ambito meramente politico a quello della democrazia sociale ed economica, quindi “lavoratori” come cittadini uguali che contribuiscono attivamente ad ogni aspetto della Repubblica. Ed è innegabile che una comunità possa crescere solo se tutti i suoi membri collaborano a tale crescita.

Fanfani, proponente della frase all’art. 1, volle precisare ancora: «Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui [...] Niente pura esaltazione della fatica muscolare, come superficialmente si potrebbe immaginare, del puro sforzo fisico; ma affermazione del dovere di ogni uomo di essere quello che ciascuno può in proporzione dei talenti naturali».

Essere quello che ciascuno può. In proporzione ai talenti naturali.
Su questo si esplica tutta la ragionevolezza del termine scelto: dissipando anche la dicotomia lavoro=denaro in luogo della sua effettività lavoro = realizzazione / altruismo / partecipazione / sviluppo secondo i mezzi di ciascuno.

Il luogo comune che si è irragionevolmente costituito sull’inesistente dicotomia lavoro=denaro va epurato. E’ un legame che vive solo nella cultura di una società (anche politica) che non ha idea dei molteplici aspetti che caratterizzano un’economia e le relative utilità, nonché del valore preminentemente etico di una qualunque attività umana. Una mancata consapevolezza tuttavia comprensibile, poiché la sua cognizione richiede una riflessione generalmente ostacolata da un’opposta considerazione: senza denaro non si vive, e il denaro arriva dal lavoro.

Non è una considerazione superficiale, anche se si potrebbe già obiettare dicendo che il denaro giunge al cittadino anche in altri modi (eg: rendite mobiliari e immobiliari, interessi, partecipazioni azionarie, pensioni sociali, sussidi, reddito di cittadinanza, etc.). Il lavoro non retribuito, non retribuibile, o  retribuito in maniera insufficiente alle esigenze di vita, rimane certamente un problema sociale irrisolto; un aspetto utilissimo all’economia nonché un obiettivo costituzionale malamente perseguito che s’incardina nei diritti fondamentali che abbiamo sviscerato. Ma anche un appuntamento con il futuro – straordinariamente previsto dalla nostra Carta costituzionale – che non può essere mancato, nel momento in cui si adotteranno su più ampia scala i sistemi di automazione, robotica e intelligenza artificiale già esistenti.

Non c’è utopia nella Costituzione, ma saggezza e lungimiranza.

Giungiamo così a notare l’art. 35 Cost. che apre il Titolo III della nostra Carta. Anche tale norma testimonia l’obiettivo di rendere libera ogni forma occupazionale: «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni». Siamo ormai fuori dal perimetro dei diritti fondamentali, ma ogni norma costituzionale che ne parli contribuisce naturalmente a dare chiarezza e orientare l’interprete, come il successivo art. 36, dove finalmente troviamo quel legame che abbiamo fin qui criticato: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».

Benché la nostra critica debba ritenersi risolta dalle considerazioni precedenti, stabilendo una volta e per tutte che non esiste alcun corto circuito costituzionale, dunque non può esservi legame tra la Repubblica fondata sul lavoro e il denaro che da esso consegue, l’art. 36 ha un suo cardine e una gran dignità che ora dobbiamo esaminare con cura.

Lavorare è vivere.
Non è un refuso sulla congiunzione: sono proprio tre verbi in fila! E questo sarà il tema del prossimo articolo e appuntamento che vi propongo per continuare queste nostre riflessioni in chiave costituzionale.

continua...


Base foto: Skywalter da Pixabay