Chiunque si interessi alle relazioni internazionali conosce bene quanto profondo sia il rapporto che lega Stati Uniti e Regno Unito. Due guerre mondiali in cui i due paesi sono stati alleati e la Guerra Fredda hanno cementato questa relazione speciale che si è fatta tuttavia col tempo sempre più squilibrata dato il ruolo preponderante degli Stati Uniti. Londra però era sempre riuscita a rimanere l’alleato più fidato e più esperto, sempre in prima linea nel condividere e nel giustificare le strategie della Casa Bianca, anche quelle più spericolate come la seconda guerra del Golfo.

Anche dopo le elezioni presidenziali, la premier britannica Theresa May ha fatto di tutto per essere la prima leader europea a congratularsi “de visu” con Donald Trump e si è precipitata a Washington per un colloquio destinato a rinnovare i fasti dello storico rapporto privilegiato da coronarsi con una visita di stato a Londra con tutti gli orpelli di carrozze dorate, scorta di Blues and Royals a cavallo, visita alla Regina, pranzi ufficiali, trattati bilaterali da firmare in gran pompa, tutte cose che gli inglesi sanno fare da maestri. Fa parte del “soft power” ed é la capacità di fare sentire la controparte onorata di essere oggetto di tante aristocratiche premure, anche se il paese ospitante non conta più granché.

A distanza di qualche mese e dopo una serie di tweets oltraggiosi con cui si strapazzava la povera May per non fare abbastanza per combattere il Daesh, si insolentiva il Sindaco di Londra trattandolo come il cameriere indiano in “Hollywood Party” e con il concreto pericolo di manifestazioni di protesta davanti all’ambasciata USA, le due parti hanno preferito rinviare sine die la visita. 

La cosa, di per sé clamorosa, poteva finire cosi. Ma a Trump l’idea di essere costretto a rinviare il suo ingresso trionfale a Buckingham Palace deve essere sembrata troppo lesiva del suo orgoglio di Presidente-Alfa. Si è quindi inventato la scusa risibile di non volere inaugurare la nuova sede dell’ambasciata USA a Londra “perché troppo brutta”.

Su una cosa devo convenire con Trump, bella non è, soprattutto se la si mette a confronto con quella attuale, a Grosvenor Square. Il punto è che, in questi tempi difficili, il criterio di valutazione di un’ambasciata, soprattutto di un’ambasciata USA, non è la bellezza ma la sicurezza. Non gioielli architettonici ma fortezze e quella nuova sul Tamigi è persino munita di fossato e ponti levatoi.