Continua dall’articolo “365 giorni di guerra: cause e cronaca del conflitto ucraino”.
Se consideriamo invece le conseguenze innescate dall'invasione, possiamo dire che da un punto di vista geopolitico, dopo un anno il mondo ci si presenta oggi in una veste completamente inedita. Il fronte occidentale, capitanato dagli Stati Uniti, ha cercato fin dall'inizio, forse pensando a come George H. W. Bush rispose all'invasione irachena del Kuwait, di creare una grande coalizione internazionale che potesse isolare la Russia mettendola con le spalle al muro. Ma, come evidenziano i risultati delle mozioni di condanna promosse dall'Ucraina nell'assemblea generale ONU, il mondo oggi è molto meno compatto. Di conseguenza, molti attori internazionali hanno visto nell'invasione l'occasione per rompere schemi e pratiche che si erano ormai consolidate sul panorama internazionale, e, conseguentemente, molti equilibri sono drasticamente cambiati.
Anzitutto, la performance dell'esercito russo, incapace di ottenere significative vittorie strategiche nel corso dell'anno, ha arrecato un enorme danno di immagine alla potenza russa. Le forze di Mosca infatti non soltanto hanno dovuto abbandonare l'accerchiamento di Kiev, ma hanno perso l'iniziativa sul campo a seguito della controffensiva ucraina di fine estate, che ha permesso di riconquistare una parte considerevole del territorio inizialmente occupato. Questo è stato indubbiamente possibile in larga parte grazie al supporto logistico e tecnologico fornito dall'occidente, ma per un paese come la Russia, in cui la propria potenza e la propria postura strategica sono strettamente legate alla capacità bellica, le immagini dell'incrociatore lanciamissili Moskva che affonda o l'incredibile numero di generali (se ne contano circa 20) e alti ufficiali uccisi, non potranno non tormentare i vertici militari della Federazione per molto tempo. La Russia è poi stata effettivamente tagliata fuori dal sistema di approvvigionamento internazionale per quanto riguarda le tecnologie sensibili poste sotto sanzione occidentale, obbligata a far ricorso agli aiuti diretti di Corea del Nord e Iran per poter sostenere lo sforzo bellico sempre più esoso.
Non solo, le azioni di Putin hanno essenzialmente generato una reazione diametralmente opposta rispetto a quanto inizialmente auspicato. Se infatti l'idea originaria era quella di depotenziare e allontanare i confini della NATO dal proprio territorio, consolidando quella profondità strategica che nei secoli ha favorito e difeso i centri di potere russi, l'invasione dell'Ucraina ha spinto i vicini di Mosca a cercare maggiori garanzie di sicurezza e nuove fonti di approvvigionamento energetico, certi di non poter più contare sull'affidabilità del Cremlino. Ed è così che la Germania, già colpita per aver perso il suo principale fornitore di energia economica, ha annunciato per la prima volta dal 1945 di voler tornare a possedere un esercito moderno ed efficace, prendendo atto del mutamento avvenuto nel contesto internazionale, indirizzato ormai verso un multipolarismo conflittuale. Liz Truss, in veste di Ministro degli Esteri di Boris Johnson, aveva affermato lo stesso in un documento rilasciato in aprile e dove si sosteneva che “l'era delle geopolitiche” fosse tornata, e che gli scontri armati tra grandi potenze saranno più comuni di prima. Considerazioni simili sono state date dai ministri della difesa e degli esteri di altri importanti attori, come Francia, Spagna e Italia, mentre i paesi dell'Europa orientale, in quanto maggiormente coinvolti per retaggio culturale e vicinanza geografica, hanno visto crescere l'importanza del proprio ruolo all'interno dei calcoli strategici di Washington, e rivestono oggi una posizione quasi impensabile prima dell'invasione. Di fatto, il centro gravitazionale europeo si sta spostando da occidente a oriente, investendo di sempre maggiore importanza attori come le repubbliche baltiche, la Polonia e la Romania. In particolare Varsavia si è resa protagonista, passata da “malata d'Europa” ad autorevole voce dell’Unione per quanto riguarda il dossier ucraino: il paese fornisce accoglienza ai rifugiati, aumenta la spesa militare, ed elargisce aiuti ed addestramento militare a Kiev, mantenendo in continuità con il suo passato una postura essenzialmente ostile nei confronti della Russia, frutto di anni di occupazione, e ponendosi così in netto contrasto con altri paesi (come Italia e Germania), che in virtù di un certo pragmatismo energetico non si sono mai fatti problemi nell’intrattenere relazioni anche molto strette con Mosca. Persino Svezia e Finlandia, vicini storicamente neutri, hanno presentato domanda di adesione alla NATO (in attesa dell'assenso turco definitivo), segno che l'illusione europea di pace perpetua è definitivamente tramontata. Inoltre, attori con posture più ambigue, come la Turchia di Erdogan, sempre più abile nel proprio equilibrismo geopolitico, o come l'India di Modi, sono riusciti a sfruttare il momento per i propri interessi: maggior proiezione nel Mediterraneo e in Medio Oriente per i primi, maggiori quantità di risorse naturali e approvvigionamenti energetici a prezzi vantaggiosi per i secondi.
Gli Stati Uniti, per la prima volta dal 1945, sono stati apertamente sfidati nel loro ruolo di unica potenza globale, perdendo forse in maniera definitiva il proprio primato egemonico. Nonostante i moniti ed i tentativi di Biden di scoraggiare un’operazione di tale portata, lo scontro non è stato evitato. L'invasione russa è infatti avvenuta anche a causa della percepita debolezza interna statunitense, che ha proiettato l'immagine di una potenza in crisi d'identità, non più capace o disposta ad accollarsi i costi derivanti dal proprio ruolo di garante dell'ordine internazionale che Washington aveva aiutato a plasmare fin dal 1918. Nonostante questo, la risposta della NATO, sostenuta principalmente dall'iniziativa americana, ha stupito molti sia per la mole di aiuti economici e tecnologici che per l'efficacia sul campo, fornendo la dimostrazione plastica di un paese capace ancora di fare affidamento al proprio potenziale tecnologico e ad una vasta rete di alleanze internazionali consolidate, anche se in forma marcatamente inferiore rispetto al passato.
La Cina si è accorta di questa fase, ed è pertanto passata all'azione.
La crisi di agosto a Taiwan, innescata dalla visita della speaker della Camera, la democratica Nancy Pelosi, è servita come campanello di allarme per la possibile evoluzione di un’altra faglia, potenzialmente ancora più distruttiva di quella in Europa orientale. Negli ultimi mesi il confronto con Pechino ha raggiunto nuove vette, dopo la distruzione dei palloni aerei da ricognizione cinesi e le accuse lanciate da Washington di star favorendo Mosca nella guerra contro l'Ucraina, sia per l'acquisizione di ingenti quantità di gas e petrolio russi, per il quale Mosca deve tanto anche a Delhi, sia anche attraverso la fornitura di armamenti letali. Queste ultime affermazioni, lo ricordiamo, non sono state ad oggi corroborate da prove fattuali, benché la Cina sia oggi sottoposta ad uno scrutinio più stretto da parte del fronte occidentale.
Biden avrebbe preso la questione cinese così seriamente da aver iniziato una ingente operazione globale volta essenzialmente a limitare le ambizioni di Pechino, articolata attraverso una serie di provvedimenti molto diretti come il divieto di esportazione di tecnologie sensibili e legate alla produzione di microprocessori, o l'intensificazione del dialogo strategico del QUAD, il quadrilatero securitario che gli Stati Uniti intrattengono con Giappone, India e Australia (e, nella sua forma allargata di QUAD+, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Vietnam), per creare una linea di contenimento diretta in Asia.
Ma forse è proprio qui che troviamo la principale differenza con il mondo che abbiamo conosciuto fino a poco tempo fa. Nonostante gli appelli e le innumerevoli iniziative diplomatiche infatti, Washington è per ora riuscita ad assicurarsi i favori e le simpatie del solo fronte occidentale “stretto”, vale a dire essenzialmente UE, Gran Bretagna, Australia, Corea del Sud e Giappone. Altri attori storicamente vicini alle posizioni statunitensi hanno invece adottato un approccio più ambiguo, come India, Turchia, Israele, Sud Africa e Arabia Saudita, desiderosi di appagare le proprie aspirazioni e tutelare l'interesse nazionale piuttosto che lanciarsi in crociate ideologiche.
Ad esempio, il conflitto ha fatto riemergere come attore imprescindibile dello scacchiere internazionale la Turchia, la quale è riuscita a ritagliarsi il ruolo di mediatore tra Ucraina e Russia, anche grazie alle abilità di “fence sitting” (favorendo sì il dialogo tra i due attori, ma anche ostacolando l’ingresso di altri stati all’interno dell’alleanza atlantica) di Erdogan. Il ruolo della Turchia torna centrale proprio in queste settimane, in quanto dopo la tragedia del terremoto avvenuto il 6 febbraio, l’Ucraina ha denunciato come la Russia ostacoli l’export di grano che dovrebbe essere normalmente garantito dal “Black sea grain initiative”, di cui Turchia ed ONU sono garanti. La Turchia deve ora dimostrare di essere capace di gestire questa controversia, ed al contempo la crisi interna; nel caso non lo fosse, c’è il rischio di un ritorno ad una situazione simile a quella di aprile 2022, che aveva esposto buona parte del mondo all’insicurezza alimentare.
C’è da notare come proprio la crisi alimentare dovuta alla mancata esportazione del grano ucraino che aveva colpito soprattutto i paesi africani ma non solo, aveva contribuito ad avvicinare questi alla Russia, permettendo che alle risoluzioni Onu di condanna all’invasione quasi la metà della popolazione globale, rappresentata da 39 Stati su 180 nelle ultime votazioni, non votasse a favore di questa.
Si sta quindi formando, in definitiva, un divario sempre più largo tra Nord e Sud globale, dove la quasi totalità dei paesi Sud Americani, Africani e Asiatici vedono la guerra in Ucraina come una questione distintamente regionale, verso il quale gli occidentali vorrebbero un maggior coinvolgimento anti-russo. Insomma, il sud globale accusa l'occidente di atteggiamenti imperialistici e di pratiche di double standard che celano un permeante senso di superiorità, incarnate dal diverso comportamento manifestato dalle nazioni europee nell'accoglienza riservata ai migranti ucraini rispetto a quelli provenienti da Africa e Medio Oriente, e dalla mancanza di immedesimazione e comprensione dei punti di vista non occidentali.
Se infatti lo sdegno di fronte ai morti e alla distruzione è universale, non vi è consenso su chi detenga maggiori responsabilità sull'origine del conflitto, ed anzi, vi è ampia comprensione del punto di vista del Cremlino. Inoltre, anni di disinteresse occidentale hanno permesso alla Russia, ma soprattutto alla Cina, di espandere le proprie capacità di proiezione internazionale, ed il recente inasprimento dei rapporti tra Washington e Pechino ha causato un aumento della propaganda anti-occidentale sponsorizzata dalla Cina in Africa e in Asia, volta a rompere l'accerchiamento strategico americano, anch'esso in fase di potenziamento. Come dimostra il diverso atteggiamento manifestato dai paesi occidentali nei confronti delle nazioni più povere del Sud del mondo nei recenti forum di cooperazione internazionale, come il G20 di Bali ed il COP-27 di Sharm el-Sheikh, dove sono state fatte timide seppur significative aperture verso una cooperazione maggiormente equa verso questi paesi, l'Occidente si sta rendendo conto di dover ridiscutere i rapporti di forza che regolano gli scambi col resto del mondo, adottando un approccio maggiormente paritario. Se questo effettivamente debba accadere, e se effettivamente i rapporti debbano cambiare in tal senso, restano grossi interrogativi.
Crediti immagine: L'immagine mostra il voto dei Paesi membri all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York il 23 Febbraio 2023, relativo alla risoluzione che chiede la pace in Ucraina. [EPA-EFE/JUSTIN LANE]