di Lucia De Sanctis

Vincenzo Musacchio, criminologo, giurista e associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nella sua carriera è stato allievo di Giuliano Vassalli, amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, magistrato italiano conosciuto per aver guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni ’80.  È oggi uno dei più accreditati studiosi delle nuove mafie transnazionali, un autorevole studioso a livello internazionale di strategie di lotta al crimine organizzato. Autore di numerosi saggi e di una monografia pubblicata in cinquantaquattro Stati scritta con Franco Roberti dal titolo “La lotta alle nuove mafie combattuta a livello transnazionale”. È considerato il maggior esperto di mafia albanese e i suoi lavori di approfondimento in materia sono stati utilizzati anche da commissioni legislative a livello europeo.


Professore perché si dice il silenzio è mafia?

Peppino Impastato quarantaquattro anni fa aveva compreso come il silenzio uccidesse almeno quanto la mafia stessa. “La mafia uccide, il silenzio pure”. È così ancora oggi. C’è paura di parlare di mafie. Chi ne parla rischia querele, denunce, minacce. Siamo ancora molto omertosi, reticenti, indifferenti. C’è un silenzio assordante da tanto, troppo tempo. È giunto il momento di parlare, di gridare, forte, senza timore che le mafie sono il male assoluto. Avranno vita facile finché esisteranno persone vili disposte a tacere, a osservare il silenzio sull’argomento. La mafia protegge, fornisce avvocati, consulenti, si prende cura della tua famiglia quando vai in carcere e questo fa in modo che aleggi nei suoi confronti rispetto, omertà, complicità, condivisione. In realtà non è così, la mafia apparentemente ti aiuta, ti protegge, ma in cambio poi ti chiede tutto. La tua identità, la tua libertà, finché non arriverà il giorno in cui sarai gettato via o morirai.


Gli studenti con i quali ha contatti continui sono consapevoli del pericolo delle mafie?

Io credo di sì, anche se molto dipende dalla loro età, dal tipo di educazione che ricevono a casa e dall’istituzione scolastica. Scuola e famiglia sono pilastri portanti e se considerano importante affrontare questi argomenti contribuiscono sicuramente alla crescita e alla consapevolezza dei loro figli e degli studenti verso il fenomeno mafioso.


Voi professori cosa fate per far prendere coscienza ai ragazzi di questi fenomeni criminali?

Io ho cominciato trent’anni fa con Antonino Caponnetto. Oggi porto avanti il progetto “Legalità Bene Comune” affrontando il tema delle mafie dalle scuole elementari sino all’Università. Lo faccio attraverso le attività di Cittadinanza e Costituzione, attraverso l’educazione alla legalità, con la lettura di articoli, libri, con laboratori o anche con la partecipazione, spettacoli teatrali o cinematografici. L’utilità di questi progetti è direttamente proporzionale allo scopo didattico che si voglia portare avanti. Se il progetto prevede che si sviluppino competenze legate alla capacità di interrogarsi e di valutare il profilo psicologico del comportamento individuale, e se da parte delle famiglie c’è collaborazione attiva, in genere questi progetti funzionano e sono utili. Dipende molto anche dall’età degli studenti: la consapevolezza di un preadolescente è diversa da quella di un maggiorenne.


Gli studenti come hanno risposto e rispondono al suo progetto?

Io credo in maniera molto attiva e propositiva. Partecipano e sono curiosi di conoscere e capire. In fondo il mio compito resta quello di sensibilizzare soprattutto i giovani sul tema delle mafie, per provare a insegnare che sono loro a decidere del proprio futuro e il loro percorso di vita. Si tenta di portare a compimento l’arduo compito di renderli consapevoli delle conseguenze delle loro scelte di vita, per non illuderli che la strada più facile (il crimine) sia sempre la migliore. I contenuti e i messaggi del nostro progetto cerchiamo di esprimerli riferendoci a esempi di vita concreti, facendo riflettere i ragazzi su tutti gli argomenti trattati. Raccontando dell’amore profondo tra Giovanni Falcone e Francesca Morvillo ad esempio ho visto due ragazze e un ragazzo piangere. Si sono commossi per la loro storia, il loro amore e il loro coraggio. Per questo riflettendo mi convinco che c’è ancora speranza ed io ne ho tanta verso le nuove generazioni.


La pandemia è un fattore che impedisce di parlare di mafie?

Da ormai due anni le mie attività in presenza, che ritengo essenziali, sono notevolmente diminuite, sospese e a volte portate avanti dietro uno schermo di un pc. Raramente sono potuto andare in presenza nelle scuole e questo devo dire mi è pesato moltissimo. Il contatto umano è fondamentale. Utilizzare i nuovi mezzi di comunicazione è sicuramente utile ma non arriva al cuore, anche se ci consente di raggiungere tanta gente. Come ci hanno insegnato le tante vittime di mafia, il silenzio uccide, il silenzio è un comportamento mafioso. Le nostre vite perdono di senso quando taciamo di fronte a fatti davvero importanti. Giovanni Falcone, ad esempio, sosteneva - a ragione - che i pentiti non sono solo dei deboli che tradiscono ma persone forti che sempre più si sentono estranee alla cultura del silenzio e dell'omertà.


C’è un messaggio finale che vorrebbe lanciare proprio sul tema del silenzio?

Certamente. Lo prendo dalla lettera di don Giuseppe Diana “Per amore del mio popolo non tacerò”. “Non c’è bisogno di essere eroi, basterebbe ritrovare il coraggio di avere paura, il coraggio di fare delle scelte, di denunciare” . È un messaggio ancora attuale che mi sento di suggerire alla nostra gioventù.