Secondo quanto riportato dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, il 22 aprile l’esercito turco ha intensificato gli attacchi contro le postazioni dei miliziani curdi in diverse città fra cui Hasake e Kobane, nella regione curdo-siriana del Rojava. Operazioni congiunte aeree e terrestri contro i combattenti del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) si sono avute pure nel confinante Iraq.

Il presidente turco Erdoğan il 20 aprile ha affermato in Parlamento di pregare Allah di garantire il successo all’operazione delle forze armate che viene effettuata in “stretta collaborazione” con il governo iracheno. Ma ha puntualizzato che la Turchia non mira ai territori di altri Paesi, ma vuole soltanto rafforzare la sicurezza ai suoi confini e avere la stabilità presso i suoi vicini.

Sembrerebbe invece che con l’allentamento della pressione militare e politica russa in Medio Oriente, mediorientale, conseguenza della massiccia concentrazione di mezzi e uomini nel Paese alle porte dell’Europa, i territori del nord-est siriano stanno assistendo a una nuova escalation di violenza. Il giornale on-line britannico “Middle East Eye” riferisce che una fonte militare di Ankara avrebbe detto che l’azione turca contro il PKK va a beneficio del governo regionale del Kurdistan iracheno perché gli consente di mettere in sicurezza un suo oleodotto, ritenuto oggi ancora più strategico perché le sanzioni anti-russe rendono quel petrolio importantissimo ai fini dell’esportazione: si tratta del Kirkuk-Ceyhan, un impianto da 450.000 barili giornalieri.

Le azioni militari delle ultime settimane costituiscono una fase dell’operazione Claw Lock che Ankara aveva lanciato già nel 2020, con la finalità di eliminare le basi militari del PKK situate ai confini nazionali.