Il Covid-19 ha colpito anche loro. Sono le aree coworking o le postazioni attrezzate per i collegamenti tecnologici  e wi-fi all'interno dei grandi centri commerciali, ormai disseminati un po' ovunque. 

15 mesi. Così potrebbe iniziare il diario di un invisibile nell’epoca della ipervisibilità mediatica. 15 mesi in cui, causa Covid-19, chi non ha o non aveva un posto in un’azienda che potesse giustificare i suoi spostamenti o chi non ha avuto accesso allo  smart working aziendale, è stato costretto ad un lungo e doloroso isolamento. 


Le sabbie mobili dei lavoratori itineranti

Sono molti i liberi professionisti, lavoratori autonomi o disoccupati in cerca di un progetto di vita che hanno fatto delle aree attrezzate per il lavoro all’interno dei grandi centri commerciali, il luogo salutare del contatto sociale e del lavoro, a volte condiviso. Anch’io faccio parte di questo nutrito e spesso invisibile gruppo di persone. 

Per chi ha conosciuto la vita da dipendente ma se l'è lasciata alle spalle per vari motivi questi luoghi poi, sono (o erano?) diventati lo spazio rituale in cui perpetrare le antiche abitudini dell’alzarsi presto la mattina, uscire di casa per raggiungere un posto entro un certo orario (che poi in quei luoghi significa trovare una sedia e una presa per PC libere), produrre per un certo numero di ore e interrompere il lavoro o lo studio con un caffè e il pranzo. Sono tutti simulacri di un mondo del posto fisso ormai revoluto per molti e momentaneamente sospeso per quasi tutti durante Covid-19. 


Una crisi sociale e psicologica

L'orizzonte sociale. Forse per queste persone, il più importante. Perché sono persone che si sono abituate ad una specie di solitudine, un ibrido metropolitano a metà strada tra la scelta e la coercizione delle circostanze. L’abitudine alla solitudine, un mostruoso pleonasmo, in cui il primo sostantivo è già di troppo. Andare in questi luoghi per i vagabondi della professionalità (che hanno spesso nella valigetta più di una competenza) significava ristabilire e mantenere quel legame sociale in delicato equilibrio, ma che il Covid-19 ha spezzato brutalmente e per un lungo periodo. Il senso della  precarietà della vita tipica della generazione di mezzo come la mia, ad esempio, si è innestato (sempre per l'amico Covid)  sulla vite infruttifera delle mancate prospettive sociali. 

Un bel giorno, ti rechi in quel luogo e non trovi più le sedie, i tavolo e gli esseri umani. Quel luogo, un tempo pieno di vita e di interazioni sociali, diventa lo spazio vuoto in cui nessuna solitudine è abbastanza grande per potervi sostare. Ti mancano i punti di riferimento. Ti senti un po’ come quel ragno che ha tessuto la sua tela virtuale su internet e si aggira spaurito da una direzione all’altra perché non trova più il centro .

In quei luoghi socialmente ibridi, possono scattare anche sentimenti di profonda empatia sociale. Così capita di andare a far visita alla donna del bar, da cui si prendeva tutti i giorni il cafè,  per sapere semplicemente come sta e come “butta”. E magari, per una specie di codice comportamentale ostinato, andarci con ancora lo zaino e il pc  in spalla, del tutto inservibili in quella situazione di semi lock-down.

Poi c’è l’orizzonte psicologico, legato a doppio filo a quello sociale. L’essere umano, in quanto animale sociale, non esiste socialmente, se non nel riconoscimento degli altri. Possiamo cantarcela su con un ossessivo soliloquio interiore e dire a noi stessi che ci bastiamo, che esistiamo a prescindere. Sono pretesti, espedienti per giudicare una realtà che è più facile respingere che accogliere operando una penosa elaborazione. 

Non si vuole dire, naturalmente, che l’identità individuale non sia ontologica, ma che abbisogna del riconoscimento degli altri per attuare quell’opera delicata di costruzione di se stessi nel mondo. Quando questa dinamica complessa si inceppa, possiamo intuire quanto le conseguenze siano devastanti, per l’indivuo e per la società di cui fa parte.


Si può imparare?

Credo che se il Covid-19 possa averci insegnato qualcosa, non è sull’inibizione forzata del divertimento, sulla sospensione degli schiamazzi nel parchetto all’una di notte o sui viaggi mancati, ma sull’inestimabile e precario valore della relazione sociale. Guardare gli altri vivere come te, nella speranza (a volte del tutto fantasiosa) che dall’incrocio casuale possa nascere una conoscenza, un dibattito e uno scambio.


Covid ha esacerbato l'individualismo italico

Non si tratta nemmeno di santificare questi luoghi, perché l’inciviltà e l’arroganza sono sempre esistite e sono tornate in pompa magna. Per certi versi più virulenti di prima. Vuoi per stanchezza, instabilità psicologica, disabitudine al confronto o per l'esecrabile concezione autarchica dell'individuo (contano solo i propri conoscenti diretti o la famiglia e tutti gli altri sono percepiti come ostacoli). Il famigerato individualismo italico (già presente in tutte le sue derive particolariste prima del Covid-19) è diventato ora ipertrofico ed entra  in conflitto con le necessità di ricostruzione sociale

Capita così, anche l’alterco con chi si trova a un metro da te e sta senza mascherina, trascinando fittiziamente e furbescamente la colazione fino a metà mattina. Capita che costui ti risponda in malo modo (sempre per l’orgoglio ipertrofico di considerare il principio di bene comune come un attentato alla propria persona) quando gli ricordi che all’interno dei locali pubblici vige ancora l’obbligo della mascherina. Ti chiede magari perché tu ti erga a poliziotto o che problema tu abbia e tu, sei costretto a rispondergli con tono crescente che se lui non è in grado di distinguere la differenza tra l’autorità e il senso civico, il problema è solo e soltanto suo e intanto gli intimi il gesto di rimettersela. Ricostruzione, purtroppo, significa anche questo.


La timida riapertura in un sistema sfibrato

Sono stato felice quando sono ritornato al centro (lo chiamo ormai come fosse un oggetto utopico) e ho rivisto, tavoli sedie e un ritorno lento, e ancora molto incerto, alla vita e al movimento. Sono andato dalla donna del bar, le ho fatto i complimenti per la resistenza, anzi resilienza (termine tornato tanto di moda) dimostrata nei momenti più bui e tristi della pandemia, in cui sembrava che non avrebbero mai più riaperto e con l’angoscia per alcuni clienti più fragili (anziani che trovavano nel centro anch’essi sollievo per la loro solitudine) che non sarebbero più tornati, portati via da Covid-19, in questi disgraziati 2020-2021.

Poi col caffè, mi sono diretto alla postazione, ho acceso il computer, mi sono collegato alla wi-fi, ho inserito la presa ed ho iniziato a lavorare, con altre timide apparizioni come la mia, su altri tavoli, come se nel frattempo (per un bisogno spasmodico e atavico di divorare certezze che si compiano e si contino e non per indifferenza) non fosse accaduto nulla. Quanto questo nulla sia irrilevante, solo i libri di storia ce lo potranno dire veramente.