La Libertà che guida il popolo è un dipinto a olio su tela del pittore francese Eugène Delacroix, realizzato nel 1830 e conservato nel museo del Louvre a Parigi.

La donna che si pone come protagonista della scena, è Marianne: lei è la personificazione della Francia, e soprattutto rappresenta  la Libertà.

La donna, in una mano stringe la bandiera francese, mentre nell’altra, una baionetta, suggerendo la sua attiva partecipazione nel conflitto; i suoi piedi sono nudi mentre attraversa il campo di battaglia, ha il seno scoperto e sulla testa ha un berretto frigio, il quale era il simbolo della repubblica tanto agognata dai rivoluzionari nel 1789.

Marianne volge lo sguardo verso gli altri cittadini, incoraggiandoli a combattere.

Oggi sono le” Afghanistan’s women’s national cycling team” a combattere per la libertà.

Un gruppo di 40 donne afgane appassionate di ciclismo e che fanno parte della nazionale femminile sta cercando di infrangere le barriere entro cui sono costrette dalle tradizioni del loro paese. Il loro obiettivo è riuscire a far passare il messaggio che anche le donne possono fare sport liberamente, un’attività considerata non adatta per una società conservatrice come quella dell’Afghanistan.

L’Afghanistan è ancora un paese dove a donne e ragazze è negata la più elementare libertà di movimento. La bicicletta rappresenta la libertà nella sua accezione basica: l’essere in grado di muoversi e viaggiare.

L’Afghanistan è quasi sempre agli ultimi posti nelle classifiche dei paesi che rispettano i diritti delle donne. Per tradizione le donne nubili appartengono ai padri e quelle sposate ai mariti. I matrimoni combinati sono frequenti, e spesso le ragazze sono costrette a sposare un cugino o un altro parente. Nelle campagne le bambine sono vendute come spose a uomini più anziani. Ci sono ancora i delitti d’onore: donne uccise da parenti maschi perché hanno avuto contatti non autorizzati con uomini estranei alla famiglia. Le protezioni offerte dalla costituzione afgana e da un’importante legge del 2009 sui diritti delle donne non sempre sono applicate con rigore.

Ecco perché l’istinto umano di pedalare  a Kabul diventa così prezioso per le afgane.Un istinto umano più forte della religione che ha  bisogno di comunicare, condividere, amare e stabilire un contatto visivo con altre persone.

Dopo la caduta del regime taliban nel 2001, le nuove autorità hanno incoraggiato quegli istinti: le ragazze e le donne di Kabul hanno potuto frequentare scuole e università, lavorare a fianco degli uomini nelle aziende private e nella pubblica amministrazione, e perfino vivere da sole o con amiche in appartamenti. La costituzione attualmente in vigore riserva alle donne 68 seggi (almeno due elette in ognuna delle 34 province) sui 250 del parlamento. La necessità di tutelare queste conquiste è uno dei temi più discussi  della capitale.

Eppure appare ancora  vana la speranza che, con il tempo, in sella a una bicicletta, si potrebbe produrre una vera rivoluzione:pare infatti che la Nazionale femminile Afghana abbia visto sfumare la possibilità di qualificarsi alle Olimpiadi di Tokyo del 2020 a causa di atti vandalici che hanno compromesso l’uso delle biciclette.

La vicenda è probabilmente ben più intricata di così, ma in mancanza di fonti certe, è azzardato fare altre affermazioni. Quel che era emerso dopo la realizzazione del documentario Afghan Cycles è che l’allenatore di allora era stato fermato per corruzione, il che aveva portato alcune delle ragazze del team a chiedere asilo politico in Francia, pur di continuare ad allenarsi e sfuggire dalla gabbia dei pregiudizi imposta, in Afghanistan, alle donne che, mal viste, usano la bicicletta.

Eppure le donne che si allenano in strade polverose e lontane dal centro per non essere viste esprimono gioia, divertimento e felicità. La gioia è qualcosa per cui vale la pena combattere. Le donne afghane hanno bisogno di norme sociali più evolute, che accettino la diversità degli obiettivi di una donna che vive nel 2018. Le donne da sempre sono  catalizzatori di cambiamento quando si dà loro l’accesso all’istruzione: diventano attiviste, fanno politica, consapevoli di rischiare la vita per creare cambiamento. Il cambiamento necessita a sua volta di pace e stabilità di governo. Fattori che, temo essere,sempre più lontani.

Un ritiro speciale, di sole cicliste donne, all’insegna della solidarietà e dell’abbattimento delle frontiere e’ stato annunciato dalla  Federazione Ciclistica Italiana  che, tra maggio e giugno, ospiterà in Italia la Nazionale Afghana di ciclismo femminile,un team di 8 cicliste i cui esordi sono stati raccontati nel film documentario Afghan Cycles con la produttrice Shannon Galpin e la regista Sarah Menzies.

L’obiettivo dell’atto di solidarietà è di consentire alle giovani cicliste di preparare al meglio il prossimo Campionato Europeo di Ciclismo su strada che si svolgerà a Trento, dal 9 al 13 settembre 2020.

In Italia, la Federazione Ciclistica ha preso contatto con il CONI per ottenere, attraverso il ministero degli Esteri, gli otto visti necessari alla partenza delle ragazze che ancora risiedono in Afghanistan. Una volta in Italia, dopo un breve periodo a Roma, il team svolgerà un periodo di allenamento con le nostre azzurre e il tecnico Dino Salvoldi.

La Federazione, con il presidente Di Rocco in prima persona, si è attivata con gli sponsor affinché alle cicliste venga fornito il materiale tecnico necessario: caschi, occhiali, abbigliamento e naturalmente le biciclette.

 

Il futuro del pianeta dipende dalla possibilità di dare a  tutte le  donne l’accesso all’istruzione e alla leadership. È alle donne che spetta il compito più arduo, ma più costruttivo, di inventare e gestire la pace.

E mi ritorna alla mente  una grande donna tanto  minuta quanto energica, il cui monito risuona come una speranza per il futuro: «Nella vita non bisogna mai rassegnarsi, arrendersi alla mediocrità, bensì uscire da quella “zona grigia” (…) e coltivare il coraggio di ribellarsi”.(Rita Levi Montalcini)