Nel romanzo Prigionieri del nostro destino, pubblicato da Edizioni Underground?, Lorenzo Zucchi racconta la storia di Mauro, un uomo qualunque travolto da una crisi personale durante il lockdown. La sua mente, più che il mondo esterno, si ferma e allo stesso tempo deraglia, oscillando tra realtà e desiderio, repressione e fantasia. Abbiamo rivolto all’autore alcune domande che mettono in relazione la trama del libro con il tema della solitudine estiva, delle trasgressioni interiori e del bisogno umano di libertà.

 Il protagonista vive una quotidianità ordinaria, ma segnata da compromessi silenziosi. Secondo lei, quanto può logorare una vita costruita sul controllo e sulla routine?

 Tutto dipende dall’accettazione individuale della routine e ancora prima dalla capacità di riconoscerla. Credo che avere tanti interessi diversi e non uno solo che rischia con grande facilità di trasformarsi in ossessione possa aiutare a tenere i demoni lontani per un po’, ma forse non per sempre. Qualcuno magari scoprirà il logorio quando sarà troppo tardi per poterlo correggere in qualche modo.

  Nel libro il lockdown è lo sfondo, ma la vera crisi è interiore. Pensa che anche l’estate, con il suo tempo sospeso e il suo silenzio, possa avere un effetto simile sulla mente?

 In queste prime ore di caldo sarei tentato di rispondere di sì, laddove ci si continui a circondarsi degli stessi ambienti in un contesto mutato, senza gente, con molte aziende chiuse, proprio come accedeva durante il lockdown. Sarebbe però una forzatura, perché in realtà l’estate può essere anche il simbolo della ripresa dopo i problemi psicologici, con la sua allure da stagione spensierata, senza troppi vestiti addosso e con l’obbligo non dichiarato del provare a divertirsi a tutti i costi.

  
 Emily, Flora e Christelle sono tre figure chiave nell’equilibrio mentale di Mauro. Le considera presenze reali o rappresentazioni di un bisogno irrisolto?

 Forse la risposta giusta è che sono entrambe le cose. Senz’altro le Tre Grazie hanno un valore simbolico che travalica quello reale. Eppure, nonostante il libro sia narrato con un onnisciente che tira le fila dei personaggi, mi sono anche sforzato di dare a tutte e tre un carattere distinto, oltre che una fisionomia differente. Galeotto fu un pranzo in solitaria in un bar del mio quartiere, dove un tavolo di tre ragazze attirò la mia attenzione in uno di quelli che chiamo colpi di fulmine narrativi.

  Il protagonista sembra vivere una tensione costante, ma non arriva mai a un’azione evidente. È proprio ciò che si trattiene, secondo lei, a generare i crolli più profondi?

 L’espediente letterario che utilizzo con abuso sistematico e non solo in questo libro è il cliffhanger, ossia la sospensione finale di ogni capitolo con una scena incompiuta, onirica, sospesa, che lascia presagire qualcosa che non si vede, ma che non è detto che non succeda. La tensione prolungata e l’azione che non si concretizza sono il fondamento stesso della storia: possiamo dire che per Mauro vale sicuramente il principio secondo il quale trattenersi troppo a lungo porta poi a cadere in maniera rovinosa.

 Il contesto urbano in cui si muove Mauro è descritto come spento, immobile. Quanto influisce lo spazio su una mente già fragile, soprattutto quando la realtà esterna si svuota, come accade d’estate?

 L’ambientazione del romanzo è stata scelta con cura proprio per trasmettere un senso di vuoto spinto, di degrado urbano, di esistenze di mero passaggio che unitamente alla situazione pandemica creassero un ambiente disastrato paragonabile a quello di romanzi distopici su un futuro apocalittico. In realtà ogni luogo ha grande dignità di esistere e chi abita nelle località del Nord Milano narrate nel romanzo in genere le ama; però è anche vero che il ‘bello’ di solito ha un effetto rigenerante sulla psiche.

  La trasgressione nel romanzo non è mai esplicita, ma appare in filigrana. È più inquietante una fuga mentale non consumata rispetto a un gesto concreto?

 Compiere una trasgressione significa banalizzarla, catalogarla, renderla parte di un vissuto, condannarla a ripetersi. Potrebbe in ogni caso non liberare la mente abbastanza, ma perlomeno dovrebbe garantire un effetto calmante provvisorio, laddove la quota di trasgredito non dia adito a rimorsi. Continuare a cercare la stessa fuga mentale, invece, è chiaramente indice di un malessere profondo che non siamo in grado di diagnosticarci da soli (ed è per questo motivo che non è Mauro a narrare la storia).

  Il libro suggerisce che non sempre è la rottura a spaventare, ma il bisogno di rottura. Secondo lei, è il desiderio represso o la trasgressione vissuta a cambiare davvero le persone?

 Uno dei punti focali del libro è proprio il sottile, difficile equilibrio tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere, anche solo per lo spazio di un lungo sogno, di un’estate diversa, di un periodo particolare come il lockdown. Rompere non spaventa perché magari ci si immagina che per forza di cose le cose cambieranno, mentre il desiderio di trasgressione disturba la visione di sottofondo della propria vita, ma per poter raggiungere un reale cambiamento interiore spesso ci si scontra con un deficit di maturità.

 Se dovesse riassumere il viaggio di Mauro in una parola legata all’estate, quale sceglierebbe: afa, solitudine, incendio o miraggio? L’afa è quella che gli toglie il fiato quando corre la Sesto-Monza. La solitudine quella che lo porta a immaginarsi incontri con i suoi vecchi compagni di Oktoberfest. L’incendio intercorre durante una sua incursione a riparare un elettrodomestico in una casa di ringhiera milanese. Il miraggio però Mauro lo vive per tutto il libro: a volte ha la forma di sua figlia, a volte quello delle bufale propagandate via etere, e il sogno irrealizzabile della sua ‘Lolita’ preferita del momento continuerà a tormentarlo per tutte le estati che gli restano ancora da vivere.

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