A Firenze c’è un mostro? O forse c’era, c’ erano dei mostri; o ancora,  per molti  esso non è mai esistito, è solo un totem che nasconde dei carmina burana inconfessabili.

Abbiamo narrato di questa storia nel nostro libro ( “Il mostro di Firenze - John Doe in Toscana, la storia osservata da un passante” Eidon edizioni),  e non ci torneremmo, non fosse per il fatto che anche questa vicenda si svolge proprio a Firenze.

Abbiamo poche fonti a disposizione: qualche articolo e uno speciale su “La Linea d’Ombra”, oltre a uno spazio dedicato dal programma “ Il terzo Indizio”. Il resto, è da frugare con le unghie, dopo aver scoperto le consuete dissonanze ( a iniziare dall’anno, che viene indicato talvolta come 2002, talaltra nel 2003).


Iniziamo con una premessa, prendiamola alla larga. Quando le notizie, le cose, gli strumenti arrivano a noi, sono già stati consumati; noi raccattiamo le briciole, le chiamiamo benessere e democrazia, progresso tecnologico e scientifico. Per esempio, il whatsapp sboccia massicciamente dopo il 2010, ma viene menzionato in uno sketch di Max Tortora che imita Alberto Sordi, nei primi anni duemila. Se avete voglia di divertirvi, c’è molto da scovare nei libri e nei media, come faceva il Condor Robert Redford, nel famoso film: dunque fate attenzione. E vedremo in che misura queste bizzarrie entrano nella nostra storia.

L’8 novembre 2003, sabato, in una bella abitazione del centro storico fiorentino, il farmacista ( titolare, non dipendente) Paolo Botteri sta tornando a casa, con le figlie che è andato a prendere a scuola ( o con una sola, le cronache iniziano già qui a dividersi). Quando l’uomo arriva, aperto l’uscio, trova sua moglie, la bella Rossana D’Aniello, 46 anni, funzionaria di banca dalla vita specchiata, riversa sul pavimento della camera da letto, in un’ordalia di sangue che ricopre i pavimenti, è schizzato sulle pareti, in ogni stanza. Sconvolto, Paolo tira via le figliole, da l’allarme e, colto da malore, viene portato all’ospedale.

La ferocia e la violenza del crimine, uniti al fatto che il corpo della poveretta è stato trascinato in camera da letto, fanno pensare ovviamente a una mano maschile: la testa di Rossana appare quasi staccata dal tronco. Si occupa in prima persona del caso il pubblico ministero Piero Suchan, parente della vittima (fonte Vincenzo Cerami, Corriere.it, 17 febbraio 2008).

In pochi giorni, tutto è bell’e ricostruito: non si tratta di un killer maschio. La fosca e torva impiegata del comune Daniela Cecchin,  classe 1956, aspetto androgino e respingente, confessa l’omicidio, e fornisce anche il movente: l’invidia. Da ragazza, frustrata e derisa a scuola e all’Università, al primo anno della facoltà di chimica farmaceutica aveva conosciuto Botteri, unico coetaneo gentile con lei, e non l’aveva mai dimenticato. Qualche tempo prima del delitto l’aveva casualmente rivisto ma, senza avvicinarlo, aveva preso a pedinarlo, sorprendendolo in atteggiamenti spensierati e un evidente affiatamento con la moglie: colta da irrefrenabile pulsione distruttiva, identificando nella “rivale” la proiezione di ciò che non era riuscita a diventare lei, la Cecchin aveva escogitato un piano per ucciderla.

Narrano i resoconti, quasi a fotocopia, che durante la perquisizione della casa dove l’assassina viveva sola, in via Dogali, primariamente si notava l’ordine maniacale; erano stati trovati dischi di musica classica ma pure di heavy metal, testi sacri, fumetti per bambini e la cassetta del film “Psyco” di Alfred Hitchcock. Non mancavano appunti, tratti da un libro noir, con un abbozzo di pianificazione delittuosa mediante coltello e addirittura abiti di Rossana… 

Ci fanno sapere che Daniela sparava al poligono, era cattolica integralista, frequentava solo la chiesa, non aveva amici. Un collega dell’Ufficio di igiene racconterà che si era sprecata a chiacchierare un poco di più solo in occasione della tragedia dell’11 settembre 2001. Veniamo a sapere che la donna era ricorsa alla chirurgia estetica per ingrandire i seni e far sbalzare i capezzoli: per chi e perché non si sa, forse per guardarsi allo specchio, visto che la si da per vergine?

L’imputata era difesa dallo studio legale  Zanobini ( che qualche anno dopo farà assolvere il farmacista Francesco Calamandrei dall’infamante accusa di essere il mandante dei delitti del “mostro” di Firenze) e si punta subito sull’infermità mentale e l’esclusione della premeditazione, preferendo la teoria del raptus. Le peripezie giudiziarie, qui, poco ci interessano. Tra rito abbreviato e riconoscimento della seminfermità, nel 2017 la condanna era quasi scaduta, ma i parenti della D’Aniello hanno protestato e non si sa bene come sia finita, ad oggi.


Analisi di un delitto: non torna mai nulla.

La biografia della misconosciuta omicida è sconcertante. Per cominciare siamo abituati a uomini, più che a donne, quando si tratta di crimini efferati, sanguinolenti e maniacali, e a storie di maltrattamenti familiari, abusi nell’infanzia, traumi di una qualche natura. Se esistessero, nella vita di questa donna, problematiche derivate dall’esterno del suo essere, nessuno lo ha detto o forse nemmeno approfondito. Viene regolarmente descritta come  storta di suo.

Nata a Montebello Vicentino, da “famiglia benestante”, ultima di tre figli, Daniela ( che avrebbe definito suo padre “ un perdente”) si sposta con il nucleo familiare brevemente a Verona, poi definitamente a Firenze, frequenta le scuole senza problemi, fino al liceo classico “Michelangelo”; ma all’università si “intoppa”, non passa un esame e molla dopo il primo anno, quel fatidico periodo in cui il Botteri l’avrebbe affascinata senza speranza. La farmacista mancata resta in ambito sanitario, tenta l’esame da infermiera, ma non supera nemmeno quello.

La ragazza soffre di anoressia e bulimia, si ritiene perseguitata dai coetanei per la sua religiosità, in un mondo laico di cui non condivide le contestazioni, assume psicofarmaci, va in  terapia due anni, senza apprezzabili risultati. Non sappiamo alcunché dei suoi rapporti con i parenti, di frequentazioni, socialità: a quanto pare si divideva tra la chiesa ( ma senza relazioni parrocchiane), incursioni ai poligoni per allenarsi e solitari giri in bicicletta. Possibile che costei sia riuscita per anni a vivere come una Dinamite Bla perennemente ringhiosa? Non esiste nessuno in grado di riempire i vuoti di questo orrido racconto, un medico di famiglia, un sacerdote, un vicino di casa?

Nel 1987 la ritroviamo, d’un balzo (le narrazioni saltano interi periodi) impiegata a Vicenza, centralinista in un’azienda per telesoccorso per anziani ma, causa la sua scarsa comunicatività, viene spostata in archivio e la prende male: molesta telefonicamente i colleghi, a suo parere insolenti e ingrati, urla da sola nei bagni, ruba documenti sotto l’occhio della telecamera, avrebbe dato fuoco al giardino di un tale di cui si era invaghita, rischiando di sterminarne la famiglia, resta impunita, ma viene licenziata; dulcis in fundo,  stalkerizza perfino il chirurgo che le ha gonfiato le tette e gli distrugge la porta dello studio. Altre voci, di converso, parlano di un’impiegata “scrupolosa”, esperta di informatica (competenza che però non esercita su di un qualche computer casalingo, che non viene mai nominato). Tra Veneto e Toscana, pare che l’atteggiamento della dipendente cambi in meglio in ufficio, in peggio nella società. La accusano di aver alterato i cartellini. Le viene ritirato il porto d’armi. 

A un certo punto Daniela ritorna a Firenze, ma sull’anno le versioni cambiano: si parla di 1997, 2000, 2001. Nonostante i suoi inquietanti pregressi, la signorina viene assunta in una pubblica amministrazione, il comune appunto. Ammettiamo che non si selezioni molto un personale screditato dai media, come quello dello stato e degli enti locali, ma questa ne aveva combinate di ogni. Chi l’ha fatta assumere?  Ovviamente si fa conoscere anche sull’Arno, anzi già dovevano saperne qualcosa, visto che Firenze è di fatto la sua città d’adozione e i casellari penali erano centralizzati da un pezzo, sta di fatto che continua a comportarsi in modo anomalo.


Come si è arrivati a catturarla.

Le indagini della squadra mobile, affiancata dalla polizia scientifica, rilevano una grande confusione, nel signorile appartamento. Chi ha ucciso, se la sarebbe presa comoda, a dispetto del dogma di Cesare Beccaria, secondo il quale il lestofante resta sul luogo del misfatto solo il tempo necessario ad eseguirlo: dopo aver spostato il cadavere, feritosi, si è tamponato il sangue con una gran quantità di carta igienica e fazzolettini, si è lavato in bagno, si è cambiato i vestiti, lasciando lì i propri e prendendo a prestito un giaccone di Botteri. Quest’ultimo, dal canto suo, ricorda un certo numero di telefonate anonime, con rantolo ansimante, nel cuore della notte, distribuite nell’arco di mesi fino a poco prima del dramma. Si controllano i tabulati, scoprendo che provenivano da cabine e risalendo alla scheda utilizzata. Poiché con la stessa scheda è partita una chiamata verso la madre della Cecchin, i poliziotti si appostano e voilà: la rimbambita killer si sarebbe ripresentata al suo call center preferito, per ricominciare a disturbare la sua prossima vittima, che aveva già adocchiato, dunque si è riusciti a fermare una serial killer. La donna è costretta a levarsi i guanti, che sempre porta ( non quelli usati per uccidere, immaginiamo), evidenziando ferite alle mani, e a disvelare il contenuto della borsetta ( no cellulare, niente denaro), ove giace un coltello di marca francese, compatibile con quello che ha quasi decapitato Rossana ( ma solo gemello). Di solito, l’arma stava in lavatrice, lavata insieme ai panni…la proprietaria si giustificherà asserendo che lo portava per suicidarsi in caso di cattura e aggiunge che per lei è “ finito un incubo”, che quel giorno  le era scattato un “furore” dentro ed era stato “ il diavolo”. 


Continua...