In un'epoca in cui l'informazione viaggia alla velocità della luce e le parole vengono brandite come armi di distrazione di massa, esiste ancora un luogo dove il silenzio non è oro, ma veleno. Gaza, striscia di terra martoriata e dimenticata, è oggi il simbolo più crudele dell'ipocrisia globale. Qui, ogni giorno, si consuma una strage che il mondo osserva a occhi aperti, mentre la politica, i media e le istituzioni internazionali recitano una macabra pantomima di indifferenza.
Bambini sepolti sotto le macerie, ospedali ridotti a scheletri di cemento, famiglie intere cancellate da un bombardamento: questa non è una "crisi umanitaria". È un massacro metodico, reso possibile da anni di occupazione, embargo e violenza strutturale. Gaza è una prigione a cielo aperto, dove due milioni di persone sopravvivono senza acqua pulita, elettricità o medicine, mentre i carri armati avanzano e i droni sorvegliano il cielo. La retorica della "difesa" e della "proporzionalità" svanisce di fronte alla realtà: oltre 50.000 morti in pochi mesi, il 70% donne e bambini. Numeri che urlano, ma che nessuno vuole ascoltare.
Mentre i corpi si accumulano, la comunità internazionale si nasconde dietro un linguaggio sterilizzato. L'Onu condanna "violazioni da entrambe le parti", come se tra oppressore e oppresso potesse esistere simmetria. Gli Stati Uniti, principali fornitori di armi a Israele con 3,8 miliardi di dollari l'anno in aiuti militari, parlano di "autodifesa" mentre approvano ulteriori finanziamenti. L'Europa, prigioniera dei sensi di colpa storici e degli interessi energetici, balbetta appelli alla "moderazione" che suonano come complicità. E l'Italia? Oscilla tra silenzi imbarazzati e dichiarazioni di solidarietà prive di azioni concrete.
Se la politica tradisce, i media mainstream completano l'opera. Titoli come "Scontri a Gaza" o "Escalation di violenza" trasformano un genocidio in una notizia da telegiornale, cancellando contesto e responsabilità. I giornalisti embedded ripetono narrazioni ufficiali, mentre quelli indipendenti — come Shireen Abu Akleh, uccisa nel 2022, o quelli oggi bloccati a Gaza — vengono messi a tacere. L'equidistanza diventa una trappola: pretendere "bilanciamento" quando un popolo è sotto occupazione militare da 56 anni non è giornalismo, è collusione.
C'è un termine che brucia, che i governi occidentali evitano con cura: apartheid. Lo usano le ONG, lo ribadiscono rapporti di Amnesty International e Human Rights Watch, ma i potenti lo considerano un tabù. Eppure, dietro i eufemismi si nasconde una verità scomoda: Gaza è il risultato di un progetto di segregazione e dominio che viola ogni principio del diritto internazionale. Quando i tribunali dell'Aja arriveranno a processare questi crimini — come già avvenuto per la Bosnia o il Ruanda — i capi di Stato che oggi tergiversano non potranno invocare l'ignoranza. Le prove sono nei video, nelle foto, nelle testimonianze che attraversano i social media nonostante la censura.
Il silenzio non è neutrale. Ogni volta che un governo rifiuta di chiedere un cessate il fuoco incondizionato, ogni volta che un giornale omette di mostrare i volti delle vittime, ogni volta che un cittadino distoglie lo sguardo per comodità, si regala un'altra bara a Gaza. La verità è semplice: non esiste "equilibrio" tra chi possiede uno degli eserciti più potenti al mondo e chi lancia pietre. Non esiste "ragion di Stato" che giustifichi la fame di un bambino.
La Storia non dimenticherà questo momento. Come condannò chi chiuse gli occhi davanti a Srebrenica, al Rwanda, alla Siria, giudicherà chi oggi tratta Gaza come un "conflitto complicato" invece che come una pulizia etnica. Il coraggio non è una virtù astratta: è rifiutare di firmare assegni ai carnefici, è scendere in piazza, è rompere il muro del silenzio. Gaza non chiede eroi, ma umanità. Prima che sia troppo tardi.
Perché alla fine, nessuna scusa potrà cancellare una domanda: dov'eri tu, quando Gaza sanguinava?
انهارت وبكت بكاءً مريراً في جلسة الأمم المتحدة وهي تتحدث عن آلام ومعاناة أهل غزة، الدكتورة تانيا الحاج تخاطب العالم:
— نحو الحرية (@hureyaksa) March 21, 2025
"نحن لسنا مجهولون، نحن أناس خلقنا الله.. لا يستطيع أهل غزة أن يتحدثوا عن أنفسهم ويدافعوا عن غزة هنا لأن النظام الذي نعيش فيه حاليًا لا يعترف بحقهم في الحياة".. pic.twitter.com/xEJGDpsZPQ
Fonte: da un editoriale di Stefano Milani, direttore di Collettiva.it