Approfondimento a cura di Gentes


Il contesto storico-politico

Il Kurdistan corrisponde ad un territorio vasto 200 mila chilometri quadrati situato in Asia sud-occidentale, e comprende al suo interno porzioni di Turchia, Iran, Iraq e Siria.

Si tratta di fatto di una Nazione senza Stato, in quanto pur avendo un popolo (quello curdo) non è in possesso di un’unità politica autonoma; questa situazione risale al periodo della Grande Guerra, con gli accordi di Sykes-Picot del 1916, e con quelli di Losanna poi nel 1923, che ridisegnarono confini e sfere di influenza a piacimento delle due principali potenze coloniali europee, Regno Unito e Francia, in Medio Oriente. Da quel momento le possibilità che potesse nascere uno Stato-nazione incentrato sull'identità curda sono andate assottigliandosi.  

Al momento l'attore politico che rappresenta maggiormente gli interessi del popolo curdo è il PKK (Kurdistan Workers Party), entità nata negli anni '70 del '900 come partito di ispirazione marxista-leninista con l'obiettivo di realizzare una rivoluzione socialista in Turchia. Nel tempo si è evoluto ideologicamente, e pur mantenendo la stessa struttura partitica, ha modificato la propria dottrina di riferimento, avvicinandosi al confederalismo democratico ideato dal leader del partito Abdullah Öcalan, che trae ispirazione dal municipalismo libertario di Murray Bookchin. A causa dei continui attriti, il PKK si è posizionato come soggetto anti-turco nel contesto regionale, e gli attori storicamente avversari di Ankara (Grecia, Iran, URSS ecc.) si sono fatti sostenitori della causa curda, con l'intento di sfruttare la situazione per i propri interessi strategici.

Dal 2014 i curdi-siriani si sono organizzati in maniera autonoma nella zona di Rojava, iniziativa da inserire in un più ampio progetto federale e che intende coinvolgere le popolazioni curde che abitano in Iran, Turchia e d Iraq; recentemente questa comunità è stata di grande aiuto alle nazioni occidentali, essendosi impegnata attivamente nella lotta allo Stato Islamico, mediante il proprio braccio armato, rappresentato dalle YPG (People's Defense Units, Unità di Protezione Popolare) e dalle YPJ (Unità di Protezione delle Donne).


Il fatto scatenante

Il 13 novembre è stata fatta esplodere una bomba nel centro di Istanbul, più precisamente in viale Istikal, famosa zona commerciale della città. Il bilancio si è attestato a 6 morti e più di 80 feriti. La polizia ha subito arrestato 46 persone, individuando tra queste il presunto attentatore, una donna siriana che avrebbe dichiarato di essere stata addestrata dal PKK e dalle YPG; ciò ha fatto subito ricadere le accuse del governo su queste formazioni paramilitari, tanto da spingere il Ministro dell’Interno turco, Suleyman Soylu, ad affermare che l’ordine di far esplodere l’ordigno provenisse da Kobane, quartier generale delle YPG.

Tuttavia, è stato osservato da vari esperti che le modalità di azione non sembrerebbero essere compatibili con quelle precedentemente adottate da questi soggetti: le YPG e le YPJ non hanno mai operato entro i confini turchi, e non utilizzano questo genere di tattiche. Entrambi i soggetti sono infatti costituite come milizie para-militari costituitesi nel 2011 e nel 2013, rispettivamente, sullo sfondo del collasso istituzionale e della guerra civile tutt'ora in corso in Siria. Diversamente, il PKK era inizialmente noto per aver condotto attentati terroristici contro bersagli riconducibili al governo turco, mentre dal 2004 è attivo il TAK (Kurdistan Freedom Hawks), gruppo militante e nazionalista nato da una fazione radicale del PKK, attivo in Turchia e responsabile di numerosi attacchi recenti, come nel caso dell’attentato del 2016 alla Vodafone Arena, dove ad essere colpite furono le forze di sicurezza. Durante quel triste evento, su 48 vittime, 39 erano agenti di polizia, mentre i feriti ammontarono a quasi 200.

Altro elemento discordante riguarda la responsabilità dell'atto. Confrontandoci ancora con l'attacco del 2016, notiamo come l'episodio venne apertamente rivendicato dal TAK.

Al contrario, dopo le accuse rivolte, YPG, SDF (Siryan democratic forces) e HSM (Centro di difesa del Popolo) si sono dichiarati estranei alla vicenda, ed hanno anzi condannano l’attacco contro i civili, accusando Erdogan di voler creare un pretesto al fine di attaccare le regioni del Rojava. L'avventurismo militare troverebbe giustificazione nella speranza del premier turco di vincere le elezioni che si terranno nel 2023, e che ad oggi danno Erdogan in forte svantaggio, a causa in primis della situazione economica turca, che viaggia con l’inflazione superiore all’80%.

Ma se non sono stati i curdi, chi altro avrebbe potuto organizzare l’attentato? È stata presa in considerazione anche la possibilità di un possibile coinvolgimento dello Stato Islamico, in quanto il modus operandi adottato per condurre l’attacco corrisponderebbe a quello normalmente usato dagli Jihadisti, ma al momento non vi sarebbero elementi sostanziali a supportare questa versione.


La reazione turca

Il 20 novembre, una settimana dopo l’attentato, la Turchia ha condotto un’operazione aerea nel nord della Siria e in Iraq coinvolgendo quasi 70 velivoli, in cui sono stati bersagliati 89 basi e siti strategicamente importanti per le forze curde. Il ministro della difesa turco ha giustificato l'operazione adducendo al diritto di autodifesa di Ankara.

Si segnala un altro dato di particolare rilievo. Nonostante in un primo momento si credesse che la Turchia avesse richiesto il permesso di sorvolare lo spazio aereo a USA e Russia, il Presidente Erdogan ha dichiarato che la Turchia può condurre autonomamente attacchi in risposta a minacce verso la sua integrità, senza bisogno di dover chiedere il permesso ad altri attori interessati e presenti nella regione,  affermando inoltre che nel teatro operativo potrebbero essere presto impiegate, oltre a forze aeree, truppe di fanteria. È stato poi riportato dalla rappresentanza dell’SDC (Syrian Democratic Council) presente negli Usa, che questi fossero a conoscenza delle intenzioni turche, e che nonostante i loro ammonimenti, la Turchia avrebbe comunque deciso di agire. Il Dipartimento di Stato ha riconosciuto poi il diritto di Ankara ad intervenire militarmente per tutelare i propri interessi, ma ha ammonito tutte le parti interessate ad intervenire in questo senso, sostenendo che qualsiasi azione destabilizzatrice in Siria rischierebbe di rafforzare e rinvigorire lo Stato Islamico. USA e Russia rimarranno presenti nel nord-est della Siria, e intendono rifiutare qualsiasi acquisizione turca di ulteriore territorio siriano.

Esponenti delle organizzazioni curde hanno indicato come conseguenze degli attacchi la distruzione delle seguenti infrastrutture: l’ospedale posto sulla collina di Mishtenur, un deposito di grano a Zirgar ed infine una centrale elettrica a Taql Baql. Il portavoce dell’SDF ha poi riportato la morte di 11 civili nel nord-est della Siria, mentre per il Syrian Observatory for Human Rights sarebbero morti 65 civili,  direttamente coinvolti dalle esplosioni o come conseguenza delle lesioni riportate.


Le possibili conseguenze

Poste queste condizioni, viene da chiedersi: che effetti possono aver scatenato gli avvenimenti appena discussi? Innanzitutto, si ha una netta presa di posizione della Turchia sullo scenario siriano, dove la Russia, a causa dell'andamento disastroso della guerra in Ucraina, non è più in grado di esercitare completamente la propria influenza, mentre l’Iran è occupato nel gestire nel fronte interno le forti proteste che stanno scuotendo il paese.

La Turchia inoltre sta utilizzando l’attentato del 13 novembre come pretesto per forzare la mano nei confronti di Svezia e Finlandia, giudicate agli occhi turchi come fin troppo accondiscendenti verso i membri del PKK, che vengono accolti come rifugiati politici. Erdogan ha in questo caso il coltello dalla parte del manico, in quanto il veto turco potrebbe risultare determinante per la non ammissione dei due paesi scandinavi nella Nato.

Gli attacchi alle postazioni curde rappresentano poi un campanello di allarme per la Grecia, che vede con timore l’espansionismo turco in Medio Oriente, in quanto premonitore di una possibile svolta aggressiva nel Mar Egeo.

Infine, gli eventi degli ultimi giorni potrebbero portare ad un indebolimento della Global Coalition to Defeat Isis, scenario che aprirebbe le porte ad un possibile ritorno dello Stato Islamico, entità che ha visto ridimensionate le proprie capacità a seguito delle pesanti sconfitte subite, ma che rimane comunque una minaccia attiva e potenzialmente ancora pericolosa.