E’ giovane e ambizioso l’italiano Mario Ruvio, che per percorrere il suo sogno di diventare un attore ha studiato in Inghilterra e all’American Academy of Dramatic Arts di Los Angeles. Una scelta coraggiosa di cui Ruvio non si è pentito e che rifarebbe anche oggi per calarsi appieno nei panni del “dottore delle anime” che gli spettatori dei suoi spettacoli cercano. Oltre alla recitazione, Mario ha un passione per il rap e gestisce una società di videomaking insieme ad un suo amico.


Salve, signor Ruvio. Io partirei proprio dalle origini. Quando ha capito che voleva fare l’attore? “Sono nato a Roma il 25 ottobre 1993. Come prima cosa, ho cominciato a percorrere il sogno del calciatore ma, nel frattempo, studiavo anche teatro. Ho fatto asilo ed elementari in una scuola americana a Roma, ho studiato l’inglese prima ancora dell’italiano, grazie a mamma che mi ha fatto fare questo. Arrivato al liceo il sogno del calciatore si è pian piano allontanato; volevo dunque fare qualcosa nella vita dove mi sentivo libero esattamente come succedeva nel campo da calcio. Tra il liceo classico, gli amici e la vita mi sono ritrovato non solo ad entrare in una compagnia teatrale, ma anche a fare rap e musica. La prima volta che sono salito su un palco a fare musica mi sono reso conto che la recitazione era ciò che volessi fare. Ricordo che da piccolo chiedevo a mia madre se ci fosse un modo per fare tutti i lavori del mondo. E’ la recitazione non è altro che questo: mettersi nei panni di qualcun altro per scoprirlo. Se lo psicologo è il dottore della mente, l’attore è il dottore dell’anima. Da qui mi sono appassionato e ho deciso di intraprendere questo percorso”.

Bene. Parliamo più dettagliatamente dei suoi studi. “Terminato il liceo, sono andato immediatamente in Inghilterra a studiare recitazione e regia teatrale e cinematografica. E’ come se avessi preso due lauree contemporaneamente. Sono andato all’Aberystwyth University Uk, in Galles, dove ho fatto l’università per tre anni. Mentre mi trovavo lì a finire i miei esami di laurea mi sono accorto dell’American Academy of Dramatic Arts, ossia la scuola dove sono stato a Los Angeles”.

Come ha avuto accesso lì? “Ho deciso di fare l’audizione. Ho portato due monologhi, uno classico e uno contemporaneo, e dopo una settimana ho ricevuto una lettera nella quale mi si diceva che ero stato accettato. Mi ricordo che precisarono, all’audizione, che in Europa avevano visto oltre 2500 ragazzi, con soli 16 posti disponibili. Io sono stato tra quelli ed ho cominciato quest’esperienza fantastica a Los Angeles, dove ho intrapreso due anni di accademia di recitazione, nella quale si studiava davvero dalla mattina alla sera. Ho potuto imparare un sacco di cose. Persino a ballare il jazz, il charleston, il valzer, senza contare tutti gli accenti che mi hanno insegnato”.

E al termine dell’accademia cos’è successo? “Finita l’accademia, l’anno scorso intorno al mese di agosto, sono stato abilitato ad un anno legale lavorativo. Mi hanno dato, in sintesi, un documento che mi abilita a lavorare per un anno dal giorno in cui mi sono laureato. E’ tra i miei obiettivi però ricevere il visto lavorativo da artista, che posso rinnovare tutte le volte che voglio. La mia convinzione nel voler fare questo mestiere è così forte ed irremovibile che sono disposto a sudare e lottare per riuscire nel mio scopo”.

Immagino non sia stato facile lasciare l’Italia per trasferirsi in Inghilterra prima e in America poi, luoghi dove non conosceva nessuno… “In realtà non ha mai pesato su di me il fatto che non conoscessi nessuno; era meglio. Fin da piccolo, mia madre mi ha portato in giro per il mondo. Sono stato a New York, in Africa, in Marocco, in Cile, Kenya e tanti altri posti. Capitava che andassi in giro da solo e mi sono sempre sentito cittadino del mondo perché, con gli studi intrapresi, parlavo inglese da madrelingua già intorno ai sette e ai dieci anni. Ai miei amici dicevo che non potevo restare a Roma, che avevo ancora tanti luoghi da vedere. Riallacciandomi al discorso di prima, ovvero quello che desideravo fare tutti i lavori del mondo, auspicavo di conoscere quante più persone possibili in grado di aiutarmi a tracciare ulteriormente il mio cammino”.

Lei fa molto teatro. Qual è il genere in cui preferisce cimentarsi? “Anche se faccio rap sia in italiano e sia in americano, non vedo il musical come il genere più congeniale a me. E’ un’esperienza che mi è stata utile per imparare: cantare e recitare insieme è la cosa più difficile. Per ogni attore teatrale credo che sia utile fare almeno un musical per capire a che cosa deve andare incontro. Quello che preferisco fare è il drama. Spazio dal thriller psicologico alle trame dark. Anche se ho scoperto di avere un mio perché pure nella commedia”.

Ci sono dei traguardi che vorrebbe raggiungere nella sua carriera di attore? “Il primo l’ho già raggiunto, ossia avere un agente. Come attore di oggi, ovviamente penso agli Oscar o agli Awards, a qualcosa che certifichi le mie ‘skill’. L’obiettivo principale però è quello di cercare di raggiungermi. Faccio un po’ il discorso di Matthew McConaughey agli Oscar. Quando la gente mi chiede se ho un eroe, rispondo di essere io tra dieci anni. Spero di non poter rincontrare il mio eroe, perché così avrò sempre qualcuno da rincorrere e non smetterò mai di muovermi. Per me il successo non è essere famoso, ma avere abbastanza soldi da potermi prendere cura delle persone che amo. Cerco di poter trasmettere questo coi miei traguardi, che sia l’Oscar o qualsiasi altra cosa non ha importanza. Tutti i traguardi che raggiungo non sono per me, bensì per le persone a cui voglio bene”.

Quali sono stati i suoi personali riferimenti che l’hanno convinta ad intraprendere la carriera artistica? “Sono un grande appassionato di De Niro e Al Pacino perché credo di poter fare quelle parti, di avere un look simile al loro. Rientro molto in quel type casting. Tutti mi dicono che sono molto “duro”, che potrei fare sempre il cattivo. Come recitazione mi hanno ispirato molto anche Leonardo di Caprio e Keanu Reeves. A quest’ultimo spero di somigliare in futuro per quello che fa al di fuori del campo, quando non recita. Gli sono successe tante cose e continua a portare il sorriso, ad essere una grande persona di questo mondo. Poi ci sono anche Tom Hardy e Cillian Murphy, la star di Peaky Blinders. Sono tutte persone che seguo, che stimo al di là dei riflettori, e spero di poter incontrare un giorno. Vorrei prendere esempio da loro soprattutto dal punto di vista umano”.

Immagina di potersi trovare in difficoltà di fronte a certe tipologie di scene? “Non reciterei mai una scena dove ci sta un serpente. Se ne vedo uno e sono a meno di un km di distanza comincio a correre. Se mi metti al fianco di uno squalo recito tranquillamente, mentre col serpente ho proprio una fobia, scatta in me un grossa paura”.

A proposito di paura. Il mestiere dell’attore è uno dei più precari. La spaventa questo aspetto? “No, perché da quando ho deciso che è l’attore che voglio fare, che sono pronto a scommetterci la vita, non ho più paura. Ho imparato che non si deve paragonare il proprio successo a quello di qualcun altro, dunque non c’è più paura. Mi hanno insegnato che bisogna fallire e cadere per poter succedere. In ogni occasione io vedo un’opportunità per fallire. Ad esempio, Thomas Edison è riuscito ad inventare la lampadina al millesimo tentativo; ciò non significa che le 999 volte prima non siano servite a niente. Sono state utili per inventare, alla fine, la lampadina. Trasporto questo insegnamento sulla mia persona: se non fallisco, se non faccio tutti quei 999 tentativi non arriverò mai a mille. Si tratta di determinazione, di convinzione, di quanto credi in quello che fai”.

C’è qualcos’altro a cui si dedica?“Con un mio amico, Luca Seretti, faccio videomaking. Giriamo cortometraggi, video musicali per la gente che ne ha bisogno, video di eventi. Così ci facciamo un po’ di soldi, con cui io finanzio la mia recitazione, mentre lui la sua direzione della fotografia”.