Con gli attacchi di Hamas e le operazioni israeliani nella Striscia di Gaza, è tornata alla ribalta la polemica sul ruolo effettivo della Corte Penale Internazionale (CPI).
Sono state infatti presentate alla Corte sia accuse verso i miliziani palestinesi che verso le autorità israeliane, ma il modo di indagine e di applicazione di una eventuale sentenza resta aleatorio. Vi è chi fa notare l’intrinseca debolezza del diritto internazionale nel momento in cui si parla di attuazione di una sentenza, altri invece puntano il dito sui meccanismi di contribuzione finanziaria e materiale verso la Corte, tali da esporla a pressioni di singoli Paesi.
Le critiche arrivano anche dalle autorità politiche, come nel recente caso del Brasile: pur essendo uno degli Stati che hanno ratificato il Trattato di Roma (alla base della CPI), il suo ministro della Giustizia Flávio Dino non si esime dall’evidenziare le ambiguità e gli squilibri della Corte stessa. Addirittura ha paventato la possibilità di un ritiro del Brasile: è poi tornato sull’argomento dicendo che si trattava solo dell’idea di riflettere politicamente sull’opportunità di restare nella Corte e in quali modalità.
Era stato in precedenza il presidente brasiliano Lula a far notare l’assenza pesante nella CPI di Paesi importanti, come quelli del Consiglio di Sicurezza ONU, cioè USA, Cina e Russia. Altri Stati con un ruolo storico e geopolitico notevole non hanno ratificato il trattato, non lo hanno nemmeno firmato oppure si sono ritirati successivamente: Israele appunto, e poi l’Ucraina (che tuttavia ha parzialmente sottoposto il suo ordinamento alla giurisdizione della Corte), l’India, l’Egitto, l’Iran, il Marocco, la Thailandia, la Turchia, le Filippine, il Burundi e molti altri. Vi è poi la Serbia, la quale ha ratificato, ma che si mantiene piuttosto critica verso la CPI.