È in sé inquietante che l’epoca di massima espansione della comunicazione consentita dalla tecnologia corrisponda, al tempo stesso, all’apogeo della falsificazione della realtà. Sono, anzi, proprio le rapidissime possibilità di comunicazione globali a facilitare l’emergere di qualsivoglia assurdità, anche a scapito dell’evidenza più plateale: nel XXI secolo circa 25 milioni di persone credono, dissennatamente, che la terra sia piatta ed innumerevoli altre sciocchezze ed assurdità di genere consimile! 

Il caso dello Stato d’Israele è, dalla sua proclamazione il 14 maggio del 1948, uno degli esempi più evidenti del sovvertimento della comunicazione e del valore della verità storica. I buonisti che non hanno versato una lacrima per i 500.000 morti, in larga parte musulmani, della recente guerra civile in Siria, i 377.000 nello Yemen, i 300.000 del Darfur o gli 860.000 della Seconda guerra congolese, le recentissime distruzioni operate contro i cristiani del Nagorno-Karabakh, tutti eventi contemporanei, continuano, però, a tirar fuori i fazzoletti colorati per il conflitto tra Israele ed Hamas. Del resto il buonismo è, come conferma il Vocabolario Treccani, la mera “ostentazione di buoni sentimenti”, quelli di coloro che il Vangelo definisce come “sepolcri imbiancati”, quelli che appaiono “giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro sono pieni d’ipocrisia e iniquità” (Matteo, 23:28). Come si potrebbe altrimenti spiegare tutta la commozione, il trasporto, la finta indignazione che nasconde ben altra antica rabbia? La realtà è che l’individuo contemporaneo sta male, sta poco bene perché la nostra società produce disagio mentale, culturale e spirituale a più non posso e questo non depone favorevolmente per il presente o il futuro. In questo disastro prolifera la disinformazione, l’assurdo e la più volgare propaganda opposta all’evidenza fattuale.

Nel 2014 Joshua Muravchik ha pubblicato il libro Making David into Goliath: How the World Turned Against Israel, ancora non tradotto in italiano, in cui ha tracciato il processo politico attraverso cui gli apparati dell’industria culturale ed il “giornalismo letale” (Lethal Journalism), come lo definisce Richard Landes nel libro Can The Whole World Be Wrong? (2022), hanno ribaltato l’evidenza storica, alterando l’immagine dell’unica democrazia dell’area mediorientale nella percezione generale – ossia di tutti quelli che non si preoccupano di verificare la veridicità di quanto ascoltano passivamente alla televisione o dei titoli che leggono sulle gazzette. In questo processo di falsificazione, spesso apertamente caricaturale, è ovvio che il linguaggio ha un ruolo essenziale. Le definizioni sono sempre fondamentali alla comprensione: se il signor Rossi crede che le mele si chiamino albicocche, non deve poi sorprendersi se torna a casa dal fruttivendolo con un sacchetto di albicocche e non di mele. Cosa ci si può allora attendere da una cittadinanza intellettualmente pigra e sostanzialmente stremata quando questa viene costantemente inondata dai flussi di una comunicazione assolutamente irrilevante o platealmente falsa e ideologica?

Per quanto riguarda le calunnie e le falsità propagate sul conto di Israele i propagandisti preparano il terreno ed i moltiplicatori del delirio e della sciocchezza, per ragioni sovente radicate nella loro pochezza etico-culturale, se ne fanno strombazzanti latori. Lenin, o forse Karl Radek, li chiamerebbero, meno prosaicamente, “utili idioti”. Tra i troppi esempi di una terminologia ostile ad Israele, veicolata acriticamente dai troppi vasi vuoti che sanno fare tanto rumore, possiamo prenderne tre rientrati in voga, ossia “genocidio”, “apartheid” ed “antisemitismo”. 

 1. Genocidio.

 Lo Stato d’Israele viene calunniato con l’accusa di “genocidio” contro i “palestinesi”, un popolo inventato di sana pianta dalla metà dello scorso secolo. Già qui ci troviamo di fronte a delle falsità multiple, tra loro intersecate, che vengono però contrabbandate come verità fresche di giornata. Innanzitutto il termine “genocidio” venne coniato, nel 1944, dal giurista Raphael Lemkin, un sopravvissuto ad Auschwitz, proprio per provare ad identificare una parola che potesse, nella sua unicità, indicare la mostruosità dello sterminio metodico messo in atto dai nazisti e venir anche utilizzata, come strumento giuridico, nei tribunali internazionali. Già servirsi del termine “genocidio”, applicandolo contro lo Stato d’Israele, vuol dire provare ad appropriarsene mettendo sotto i piedi l’origine ed il significato della parola, utilizzandola per una propaganda vile e priva di alcun rapporto con l’oggettività. Per sfatare tale utilizzo volgare ed improprio del termine basta andare a guardare i numeri poiché questi, com’è noto, non mentono. Prima della Seconda guerra mondiale, in Europa, vi erano circa 8.546.000 ebrei, di cui circa 6.140.500 furono sterminati durante la Shoah. La parola “genocidio” è allora un termine che indica, propriamente, questo tipo di mostruosità omicida sistematica ai danni di un popolo. Quando, però, guardiamo alla fandonia del “genocidio palestinese” scopriamo, innanzitutto, un popolo inventato di sana pianta, a partire dagli anni ’60 dello scorso secolo, per motivi esclusivamente politici – basterebbe leggere, tra gli altri, The Innocents Abroad, il resoconto di viaggio di Mark Twain il quale, nel 1867, passando per il Medio Oriente, nomina molte volte ebrei, cristiani, arabi o beduini, ma nessuna volta questi immaginari “palestinesi…”. Tutti i libri di viaggio sull’argomento non menzionano mai questa popolazione. I propagandisti hanno risposte fantasiose su quest’assenza ma, come si diceva un tempo, carta canta e villan dorme. Questo immaginario “popolo palestinese”, creato dalle fantasticherie dei leader dell’OLP e dalla complicità di certi scranni alle Nazioni Unite, ha la funzione di grimaldello politico per offrire una presunta legittimità ai tentativi genocidi di fazioni politiche arabe in Medio Oriente. Ancora negli anni ‘70 ben noti esponenti dell’OLP si rifiutavano essi stessi di riconoscere una distinzione fattuale tra cosiddetti “palestinesi” ed altri arabi dell’area. “Non c’è alcuna differenza tra giordani, palestinesi e libanesi; siamo tutti membri di un’unica nazione”, affermò senza mezzi termini Zahir Muhsein, capo delle operazioni militari di Arafat e dell’OLP, nel corso di un’intervista pubblicata dal giornale olandese Trouw il 31 marzo 1977. “Solo per ragioni politiche siamo attenti a sottolineare la nostra identità di palestinesi, poiché uno Stato di Palestina separato sarebbe un’arma in più nelle mani degli arabi per combattere il Sionismo. Sì, chiediamo uno Stato palestinese per ragioni tattiche” (cfr. anche: http://www.pjvoice.com/v37/37005phobia.aspx). 

Passando ora all’uso del termine “genocidio” per il quale i moltiplicatori di fandonie si stracciano le vesti, è anche qui facile scoprire che il numero censito di quella popolazione araba che si identifica come palestinese, invece di diminuire come dovrebbe essere in un “genocidio”, è “raddoppiato di circa 10 volte dal 1948”, com’è costretto ad ammettere Ola Awad sul sito del Palestinian Central Bureau of Statistics (https://www.pcbs.gov.ps/post.aspx?lang=en&ItemID=4506). In un genocidio, come si è visto sopra nei confronti del popolo ebraico, il numero delle persone diminuisce drasticamente invece di aumentare… Al propagandista, però, non interessa niente di tutto questo poiché tale è il carattere della disinformazione ed i moltiplicatori di queste sciocchezze, spesso gente senza né arte né parte, sono unicamente presi dal loro odio e dall’ego meschino da cui questo proviene. 

 2. “Apartheid”.

 Un altro termine che viene sconsideratamente gettato nell’arena della disinformazione a proposito di Israele è quello di “apartheid”. Anche qui basta poco per intendere l’assurdità di tale accusa la quale, come al solito, rivolta la realtà fattuale nel suo contrario. Poiché l’antisemita è, nella migliore delle ipotesi, un povero sciocco moralmente ambiguo e, nella peggiore, un mostro, egli è solo in grado di proporre temi vuoti o ripetizioni pappagallesche le quali possono attecchire solo in un contesto privo di nozioni storiche, linguistiche o di un elementare buonsenso. Ciò significa che, in una società, il prosperare dell’antisemitismo è un indicatore storicamente accurato delle manchevolezze cognitive di questa. Il termine “apartheid”, proveniente dalla lingua afrikaans, indica una politica di segregazione razziale messa in atto, dal 1948, nella Repubblica Sudafricana ed abolita dopo il 1990. Per estensione tale termine è stato anche applicato al passato statunitense per descrivere la segregazione basata sul colore della pelle negli Stati del sud e terminata tra il 1964 ed il 1965. L’espansione del termine la si deve, in particolare, ad una Conferenza delle Nazioni Unite, International Convention on the Suppression and Punishment of the Crime of Apartheid (ICSPCA), nel 1973, in cui venne ratificato: “Ai fini della presente Convenzione, l’espressione ‘crimine di apartheid’, che comprende politiche e pratiche analoghe di segregazione razziale e di discriminazione come quelle messe in atto nell’Africa del Sud, si applica ai seguenti atti inumani commessi allo scopo di stabilire e mantenere il dominio di un gruppo razziale di persone su qualsiasi altro gruppo razziale di persone e di opprimerlo sistematicamente.”

Si può qui notare, innanzitutto, una concessione ad inesistenti differenze “razziali” tra gruppi – apparteniamo tutti alla sola razza umana – ed una certa forzatura nell’utilizzare ed applicare ad altri un termine che definisce un contesto storico e geografico ben preciso come quello dell’Africa australe.

Una discussione in cui si voglia applicare il termine “apartheid” allo Stato d’Israele non dovrebbe poi neppure aver luogo, poiché è lapalissiano che si parla di una democrazia parlamentare infinitamente diversa da quello che è stato il Sudafrica tra il 1948 ed il 1990 e non ha leggi speciali che discriminano una parte della popolazione rispetto ad un’altra, ossia tutti i cittadini israeliani, tanto quanto quelli italiani o norvegesi, sono formalmente uguali di fronte alla legge a dispetto del loro credo religioso, colore della pelle, etc. Perché questo fatto non chiude allora il discorso? Perché, in particolare nel XXI secolo, si sono imposti metodi di comunicazione (o di non-comunicazione) separati ed indifferenti alle realtà in oggetto? 

Liat Ben-Zur, in un articolo del 21 ottobre 2023 intitolato No, Israel is Not an Apartheid State  ha scritto: “Sebbene le critiche siano valide, un esame sobrio mostra che il termine ‘apartheid’ non regge. I cittadini arabi partecipano attivamente al governo, agli affari, al mondo accademico, alla medicina, alla cultura pop e altro ancora.” Ben-Zur ha anche elencato le principali ragioni (https://medium.com/@LiatBenZur/no-israel-is-not-an-apartheid-state-heres-why-feebb22f9b55) per le quali, lo Stato di Israele non può venir definito come uno Stato in cui vige l’apartheid: “Israele non ha leggi che discriminano o classificano per etnia. Gli arabi israeliani hanno pieni eguali diritti secondo la legge”.

Ben-Zur conclude il breve saggio scrivendo: “Esistono questioni legittime, ma i paragoni a buon mercato con l’apartheid sudafricana sono di fatto sbagliati e non fanno altro che produrre inimicizia e polarizzare. Per il bene della comprensione reciproca, lasciamo da parte la retorica e iniziamo ad analizzare le sfumature.”

Chiaramente questi sono discorsi per adulti che non interessano agli antisemiti, ai manipolatori ed ai moltiplicatori della propaganda e, ovviamente, non vengono portati avanti nelle sedi dell’industria culturale la quale ha sempre scopi politici e tende alla sola polarizzazione del discorso per favorire la rissa o ideologie ed interessi particolari. 

3. Antisemitismo.

L’ultimo termine della triade qui discussa è quello di “antisemitismo”. Il termine “antisemitismo” ha una connotazione storica molto specifica: emerso in Germania nell’Ottocento, venne pubblicizzato da Wilhelm Marr, uno squallido personaggio che è stato propriamente detto “il patriarca dell’antisemitismo”, proprio per indicare l’ostilità verso gli ebrei e contrastare quella che lui definiva, in un testo del 1879, come La vittoria del giudaismo sul germanesimo. Il termine “antisemita” ha, dunque, come risulta evidente a chi abbia rispetto per l’evidenza, un suo utilizzo storico ben preciso che indica l’odio verso l’ebreo contro il quale è stato coniato. Voler ampliare l’applicazione del termine “antisemitismo” dal suo contesto, solo perché contiene il termine “semita”, ed estenderlo dagli arabi fino al popolo inventato dei palestinesi, oltre ad essere un tentativo di appropriazione e di sminuimento del contenuto storico-semantico del termine, è anche segno, da parte di alcuni, di una precisa volontà di mistificare e confondere. La zucca o le melanzane vengono comunemente detti “ortaggi” anche se, la biologia moderna ci dice che sono frutti. Nessuno sano di mente andrà però mai a contestare al fruttivendolo che, nella fattura con cui consegna una cassa di pomodoro, scrive: “ortaggi” e dovrebbe invece scrivere “frutti”, perché questo è l’uso storico e consolidato del termine. Quando qualcuno ripete a pappagallo, perché altro i moltiplicatori della propaganda non sono in grado di fare, che il termine “antisemita” include anche gli arabi, dunque questi non possono essere “antisemiti”, commette almeno due errori: il primo, come dicevamo, storico e linguistico, il secondo culturale e morale. Ma, come ricordava Sartre nel suo famoso saggio sull’antisemitismo (1945): “se, come abbiamo potuto osservare, l’antisemita è impermeabile alla ragione ed all’esperienza, non è perché la sua convinzione è forte. Piuttosto, la sua convinzione è forte perché ha scelto innanzitutto di essere impermeabile alla ragione ed all’esperienza”.