Tre camion con carburante, medicinali e attrezzature mediche, sabato hanno potuto consegnare il loro carico a due ospedali nel nord della Striscia di Gaza: il Kamal Adwan e l'Al-Awda nella città di Beit Lahia. Poca roba, ma è almeno qualcosa, e siamo lontani anche dal poter dire che l'assistenza umanitaria sia garantita alla popolazione civile.

James Elder, portavoce dell'UNICEF, ha ricordato infatti che sono 600mila i minori che a Rafah, al confine con l'Egitto, devono affrontare la fame e le bombe israeliane, con i loro genitori che quotidianamente si devono arrangiare per riuscire a racimolare del cibo e dell'acqua, mentre sono circa 45mila i minori che dal 7 ottobre, a causa dell'aggressione israeliana, sono rimasti orfani di uno o di entrambi i genitori.

Anche con un numero più che triplicato di camion con aiuti umanitari che da oggi o nei prossimi giorni potranno entrare nella Striscia, a seguito dell'ultima telefonata in cui Biden deve esser riuscito a trovare minacce convincenti per far accettare tale scelta a Netanyahu, poco o nulla potrà essere il ristoro per la popolazione civile, poiché per una capillare e costante fornitura di aiuti è necessario che venga dichiarato e assicurato il cessate il fuoco.

I combattimenti sono ben lontani dall'esser terminati. Nel nord che da settimane era stato dichiarato liberato dai miliziani palestinesi, l'IDF deve ancora fare i conti con sacche di resistenza in tutta l'area. Peggio ancora quello che sta avvenendo nel centro della Striscia. A est di Khan Younis, oggi le brigate Qassam sostengono di essersi scontrate con un gruppo di soldati israeliani e di averne uccisi sei, prendendo di mira tre carri armati Merkava. Dopo sei mesi di guerra, è evidente che - come alcuni hanno ipotizzato fin dall'inizio - eliminare Hamas dalla Striscia non era certo l'obiettivo di Israele che mirava solo ad uccidere il maggior numero possibile di palestinesi, sperando che l'Egitto facesse evacuare i sopravvissuti da Rafah, per poi annettere Gaza ad Israele.

L'Egitto non ha aperto il valico, i palestinesi forse non sarebbero fuggiti e adesso Israele non sa che fare... da una parte non vuole accettare il cessate il fuoco perché ha paura di non poter poi riprendere i bombardamenti, dall'altra non sa come attaccare Rafah dopo avervi ammassato 1,5 milioni di persone, infine non ha risposte da dare a chi chiede che cosa accadrà una volta terminato il conflitto, data che nessuno può neppure ipotizzare.

Quindi, l'unica cosa che Israele può fare adesso (per salvare la faccia) è continuare a combattere... contro gli Hezbollah in Libano, contro gli iraniani in Siria e in Iraq, contro i palestinesi a Gaza... e nei Territori Occupati.

Non sapendo dare risposte, Netanyahu cerca in tutti i modi di dar vita ad una guerra regionale le cui conseguenze sono inimmaginabili. Gli stati Uniti non è chiaro se lo abbiano ancora compreso e quali siano le eventuali contromisure che hanno preparato per impedirlo (a meno che non siano complici in tutto questo), mentre l'unica variabile che può impedire al premier israeliano di portare avanti il suo disegno è l'opinione pubblica interna che continua, sempre più numerosa, a chiederne le dimissioni.

Per questo i colloqui che domenica si terranno al Cairo sulla cessazione delle ostilità sembrano destinati a non raggiungere alcun risultato. L'unica prospettiva per la fine di questo conflitto sono, in maniera sempre più evidente ogni giorno che passa, le dimissioni di Netanyahu.