Il progresso ha sicuramente dei costi. In Italia, probabilmente, sono maggiori, e spesso ingiustificati, rispetto a quelli di altri paesi. I rifiuti costituiscono l'esempio perfetto per supportare tale affermazione.

In passato, i rifiuti per alcuni non esistevano, erano concime, per altri, erano un problema di scarsissima rilevanza. Non esisteva la grande distribuzione, non esistevano i centri commerciali e non esistevano neppure così tanti prodotti da acquistare.

Adesso, invece, i rifiuti sono un problema e, soprattutto, una tassa da pagare per il loro  smaltimento. E, in fondo, questo non è sbagliato. Però, rimane da capire se quanto paghiamo sia o meno giustificato in base alla quantità di rifiuti prodotta ed alla qualità del servizio di raccolta che ci viene offerto.

A questi interrogativi prova a rispondere la CGIA di Mestre. In base all'ultimo dato disponibile, la CGIA ci informa che per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti famiglie e imprese italiane pagano quasi 8,8 miliardi di euro l’anno.  Gli aumenti tra il 2010 e il 2016 per le famiglie si sono attestati intorno al 35%, per le imprese, invece, sono arrivati a raggiungere fino al 50%.

Paradossalmente, i costi sono aumentati nonostante che la produzione dei rifiuti sia diminuita (tra il 2007 e il 2014 sono ustate raccolti 2,8 milioni di tonnellate in meno) e sia aumentata l'incidenza della raccolta differenziata (+64,4% tra il 2007 e il 2014) che, a rigor di logica, dovrebbe consentire di trasformare una parte dei rifiuti, se non tutti, come prodotto da gestire e/o rivendere per recuperare i costi di raccolta.

Come ci ricorda CGIA citando l’Antitrust, "tra le oltre 10.000 società controllate o partecipate dagli enti locali che forniscono servizi pubblici, tra cui anche la raccolta dei rifiuti, circa il 30% sono stabilmente in perdita. Una mala gestio che la politica non è ancora riuscita a risolvere". 

A questo dato va aggiunta anche la confusione che si è creata negli ultimi anni su quata tassa che ha cambiato nome e scopo più volte, persino nel giro di pochi mesi: "Si è passati dalla Tarsu (Tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani) alla Tia (Tariffa di igiene ambientale); nel 2013 ha fatto il suo debutto la Tares (Tassa rifiuti e servizi) e dal 2014, infine, tutti i Comuni applicano la Tari (Tassa rifiuti)". 

La Tari si basa sul principio comunitario che il costo del servizio sia correlato alla produzione dei rifiuti e che questo sia interamente coperto dagli utenti tramite il pagamento della tassa.

"Il problema, purtroppo, sta proprio in questo principio. Queste aziende, di fatto, operano in condizioni di monopolio, con dei costi spesso fuori mercato che famiglie e imprese, nonostante la produzione dei rifiuti sia in diminuita e la qualità del servizio offerto non sia migliorata, sono chiamate a coprire con importi che in alcuni casi sono del tutto ingiustificati".

Quindi, sarebbe indispensabile che venissero definiti dei costi standard per la raccolta e lo smaltimento di rifiuti in modo che gli utenti possano rendersi conto se i costi in bolletta siano solo relativi al servizio offerto oppure servano a coprire anche "le inefficienze e gli sprechi del sistema".

"Proprio per evitare che il costo di possibili inefficienze gestionali si scarichi sui cittadini – ricorda il segretario della CGIA Renato Mason - la Legge di Stabilità 2014 aveva previsto che, dal 2016, la determinazione delle tariffe avvenisse sulla base dei fabbisogni standard. L’ultima Legge di Stabilità, però, ha prorogato tale disposizione al 2018. Pertanto, bisognerà attendere ancora un po’ affinché le tariffe coprano solo il costo del servizio determinato dai costi standard di riferimento".