Se abbiamo visto il film “La meglio gioventù”, uscito nel 2003, con la regia di Marco Tullio Giordana? Certo che sì, con trepidazione a ogni scena, e la certezza che, per un verso o per l’altro, gente italiana della nostra generazione vi si sarebbe ritrovata.

Naturalmente, da critici a pettine fitto quali siamo diventati nel tempo, non abbiamo apprezzato la gran massa di temi che si è voluto ficcare dentro la trama, facendone, infine, un pastone indigesto e querimonioso.

Fatte salve, dunque, le magistrali interpretazioni ( ritroviamo Adriana Asti, di viscontiana nascita artistica), personalmente avremmo fatto a meno sia del coté riferito alla legge Basaglia che dei tormenti del poliziotto, anche perché i film che ripercorrono la storia recente sdrucciolano facilmente su questioni indigerite: meglio occuparsi di antica Roma che di Brigate Rosse.

Di che anni giovanili parliamo, per iniziare? Convenzionalmente situiamo questi sedicenti esseri superiori tra i nati dal 1947 al 1965, stiamo laschi. Questa benedetta ex giovinezza ( termine un po’ fascio, come da mainstream) era poi la meglio? Se rispondessimo di sì, sarebbe solo per autoincensamento turibolare.

E’ stata una proiezione interessante, nessun dubbio su questo. Abbiamo assistito al ribaltamento di un mondo: dalle atmosfere rurali con l’illuminazione a olio e l’acqua attinta alle fontane alla cybervita. Siamo staccati dai più giovani da uno spazio mentale distante anni luce: laddove noi e i nostri genitori e nonni, che pure contestavamo, dividevamo una porzione di logica, di cui ci svestivamo solo in parte per entrare nella nostra pelle e nella nuova era.

Inter omnes constat che durante l’adolescenza si formano i nostri convincimenti o, per ragionarla alla Bertrand Russell, emerge ciò che veramente siamo e sviluppiamo sostanzialmente tra i venti e i trent’anni, per poi dispiegarlo nell’età adulta e oltre, quando è possibile.

Nondimeno lo sviluppo e l’elaborazione dei dati che pervengono, con sempre maggiore velocità, a una mente vergine, vengono costantemente fucilati ai fianchi dalla manipolazione, che già negli anni settanta era feroce e ideologica, mentre svaniva il controllo sull’ordinato vivere civile da parte della religione.

Nel 1972 venne ucciso il commissario di polizia Luigi Calabresi, padre di quel Mario già direttore de La Stampa e di Repubblica, di recente rimosso e per ora senza un incarico ufficiale, sposato con la nipote della meravigliosa scrittrice Natalia Ginzburg.

Per quell’omicidio si mossero le peggio intellighenzie, scagliandosi contro il giovane funzionario; né ci ha soddisfatto la congerie di rivelazioni successive, che ha portato a condanne su tardive delazioni e a strette di mano tra vedove, Gemma, di Luigi, e Silvia, del ferroviere anarchico Giuseppe, il secondo a lungo considerato vittima del primo: tanto che per un periodo, in area antagonista, si coniò il neologismo “pinellare”, per alludere a un defenestramento di terzi.

Silvia dichiara di sapere come andarono le cose, in quel 1969, dopo la strage di piazza Fontana (La Stampa, 12 dicembre 2019); d’altro canto anche Mario Calabresi lo saprebbe ( riferito, di recente, da Gigi Moncalvo, rubrica “Silenzio Stampa”, pochi giorni fa). Da allora, possiamo sfidare chiunque a svelarci eventi oggettivamente analizzati.

Tutti sanno tutto, ma noi non sappiamo mai nulla. E poiché non abbiamo più voglia di glorificare alcuno, ricordiamo un’altra gioventù che meriterebbe giustizia, ma l’ideologia o il suo simulacro ha subito travolto, ricoprendo di nebbia anche il più volenteroso tentativo di cercare una verità: Carlo Giuliani, Vittorio Arrigoni e Giulio Regeni. Il primo demonizzato oltre ogni immaginazione come simbolo dello sbandamento allo stato puro; gli altri due, distorti e inchiodati a belle figurine da mettere come immagine del profilo social e scriverci “ Io sono…”, quando non sai nemmeno dove sei girato, per dirlo alla genovese.

In ordine di nascita, partiamo da Carlo, nato a Roma nel 1978, figlio di un sindacalista CGIL, oggi definito attivista e animalista, secondo i canoni WIKI che si sono consolidati partendo da un’etichetta: chissà come si considererebbe oggi egli stesso, allora certamente giovanotto di ventura: uscito il 20 luglio 2001, dicono, per andare al mare, deviando poi dove avrebbe potuto fare un po’ di casino, giusto o meno, probabilmente, non lo sapeva nemmeno lui, falso antieroe per fatti mal raccontati.


Il brianzolo Vittorio, classe 1975, figlio dell’operosa piccola borghesia locale, riempì la sua breve vita di un cumulo di attività sufficiente per altre quattro almeno, e di lui sì, che si può parlare quale attivista: ovviamente fecondo in una cintura estrema, che trovava usbergo a sinistra della sinistra, ma esposto nella vita reale dove era andato a vivere, a Gaza. Secondo la vulgata, il 14 aprile 2011, fu rapito all’uscita dalla palestra e il resto è un birulò dove troppi colori accecano: contrario al solito imperialismo di stampo sei punte, ma ucciso da estremisti palestinesi, a che titolo e che pro? Arrivarono condanne, dopo che la salma fu riportata in Italia transitando, per volontà della famiglia, dall’Egitto.

Nel paese delle piramidi diventa drammaticamente nota la breve esistenza di Giulio Regeni. Friulano del 1988, studi e riconoscimenti internazionali, professione ricercatore esperto di medio oriente, il 25 gennaio 2016 si trova al Cairo e si appresta a recarsi a una festa di compleanno, dopo aver salutato con un sms la fidanzata in Ucraina. Viene ritrovato morto il 3 febbraio in periferia, a seguito di torture e mutilazioni. Il rimpallo di responsabilità tra Italia ed Egitto rasenta la rottura diplomatica, ma tutto viene impastoiato nelle polemiche di decupla matrice, ognuno volendo trovare nel giovane e bel Giulio ( somigliante a Keanu Reeves) l’eroe che cerca e deve sbattere in faccia a chi gli serve. Un po’ come accaduto ai due marò, Massimilano Latorre e Salvatore Girone, a giorni alterni feticci del bene o del male assoluto.

Eseguite addizioni di pareri, moltiplicazioni di visioni e divisioni di opinioni, sottraendo la tara della politicizzazione, esce solo un romanzo criminale. La verità è che non ci abbiamo capito nulla, perché nulla dobbiamo capire e questa eredità immorale è stata trasmessa da noi, la meglio gioventù, la stessa di Giuliana Sgrena e Nicola Calipari, diversamente vittime di intrighi internazionali, che paiono creati per far spargere oceani d’inchiostro e consumare tastiere.

Oggi si direbbe: restez chez vous, non muovetevi da casa, non c’è nulla di indispensabile da combinare fuori dalle quattro mura.

Anche noi abbiamo fatto un minestrone di argomenti, proprio quello che volevamo.