Spostiamoci a Firenze: il prologo della strage dei Georgofili inizia un anno prima, nel 1992. Il 12 marzo viene ucciso il parlamentare europeo ed ex sindaco di Palermo, Salvo Lima.
Il 23 maggio c'è l'attentato di Capaci, in cui muoiono il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, magistrato anche lei, gli agenti di scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
Due mesi più tardi, il 19 luglio, è la volta del giudice Paolo Borsellino e degli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Casentino e Claudio Traina.
Poi arriva il 5 novembre, quando nel giardino di Boboli a Firenze viene fatto ritrovare un proiettile di artiglieria avvolto in un sacchetto per rifiuti: l'ordigno era collocato vicino alla statua del Magistrato Cautius, inventore della cauzione, e l'episodio fu poi definito dagli inquirenti come l'anticamera delle stragi del 1993.
Il processo sulla strage dei Georgofili si apre il 12 novembre 1996. La sentenza di primo grado arriva il 6 giugno 1998, con 14 ergastoli e varie condanne.
Ho ravvisato nelle parole dell’avv. Ammannato che rappresentava la parte civile le ragioni che dovrebbero essere considerate da ciascuno di noi nel valutare, da cittadini, la sentenza emessa due giorni fa a Palermo.
L’avvocato individuava: “più fasi della minaccia a corpo politico dello Stato”, quindi riferendosi alle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia di primo piano come Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca, Francesco Onorato, Giovanbattista Ferrante e Antonino Giuffrè “che sono convergenti e riconosciute attendibili” emerge il piano di cosa nostra di “eliminare i rami secchi, colpire i nemici di cosa nostra ed uccidere i politici traditori”.
Una minaccia che “è stata percepita dal Governo come raccontato dal ministro Scotti, dall'ex ministro Carlo Vizzini, dall’ex segretario della Dc Ciriaco De Mita, da Fanfani ma anche lo testimonia la vicenda Mannino che cosa nostra voleva eliminare dopo Lima”. È in quel momento che secondo l'avvocato ha luogo la prima fase che porterà all'azione dei carabinieri “che hanno cercato anche un appoggio politico”.
Continua: “Assieme alla Presidente dell'Associazione, Giovanna Maggiani Chelli, che si è sempre battuta come una leonessa per chiedere verità e giustizia, ci siamo posti una domanda: se Mori non fosse andato da Vito Ciancimino ci sarebbe stata la strage di Firenze? La risposta è logica. Mario Mori e gli altri carabinieri del Ros imputati sono moralmente responsabili della strage dei Georgofili. Sono moralmente responsabili del sangue di quei 5 morti e dei 48 feriti. La strage di Firenze, infatti, non ci sarebbe stata se Mori e i suoi non fossero andati a trattare con Riina. Perché fu proprio la trattativa a rafforzare la volontà stragista dei corleonesi. Un dato che è scritto anche in sentenze passate in giudicato”.
Quando parla di sentenze passate in giudicato indica le sentenze per le stragi avvenute nel 1993.
In particolare ricorda le motivazioni della sentenza Tagliavia, i giudici scrissero chiaramente che la trattativa: “indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un 'do ut des'. L'iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia” e “l'obiettivo che ci si prefiggeva, quantomeno al suo avvio, era di trovare un terreno con Cosa nostra per far cessare la sequenza delle stragi. Probabilmente non volevano quei morti. Ma sono penalmente responsabili. La loro condotta, che è provata, ha rafforzato la volontà criminale dei corleonesi e di Cosa nostra, agevolando la catena minatoria che è durata dal 1992 al 1994. Chi va fuori pista in montagna, e magari genera una valanga che causa morti, quei morti non li ha voluti. Ma la verità è che fuori pista, con il divieto, non ci si può andare. E quell'intermediazione avviata nel 1992 era illegale”. “Loro sono stati i mediatori illegali – ha proseguito – Nel diritto penale i mediatori sono ugualmente responsabili. Come nei processi di droga, quando si condanna il fornitore, lo spacciatore ma anche chi presenta lo spacciatore al fornitore, concorre al reato di spaccio di stupefacenti e qui si concorre alla minaccia a corpo politico dello Stato”.
Secondo l’avv. Ammannato vi è “una terza fase” svoltasi tra il 1993 e il 1994 nella quale si inseriscono come interlocutori Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, in una prima parte Vittorio Mangano e poi i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, Marcello Dell'Utri per arrivare a Silvio Berlusconi. Ancora una volta sono state ricordate le parole riferite da Gaspare Spatuzza sull'incontro al “Bar Doney” con Giuseppe Graviano (“Mi fece il nome di Berlusconi. Io gli chiesi se fosse quello di Canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani”) nonché la presenza di Dell'Utri proprio in quel gennaio 1994, a Roma, nei pressi dello stesso bar.
Il 5 ottobre 2011 boss mafioso Francesco Tagliavia viene condannato all'ergastolo per tutte le stragi del '93 di Roma, Firenze e Milano.
Perdonatemi l’ingenuità, pensavo che le “forze dell’ordine” dovessero dare la caccia ai mafiosi non trattarci, questo significa riconoscere che lo Stato è sconfitto perché sotto ricatto. L’impulso è partito da alti ufficiali dei carabinieri non dal “parroco del paese”. È forse questo il sistema per tutelare la dignità di un popolo, la sua incolumità e l’integrità della vita sociale, politica ed economica di una nazione? Abbiamo mafia, camorra e ndrangheta che stanno inquinando indisturbatamente l’economia nazionale, sono un attentato continuo alla nostra sopravvivenza civile. Comprano a prezzi stracciati pezzi della nostra vita ogni giorno tra l’indifferenza di coloro che sono preposti a curare la nostra indipendenza e libertà.
Eppure questa sentenza assolutoria per i colletti bianchi mi ha insegnato che in Italia solo lo ”Stato” può fare le stragi e la legge non è uguale per tutti.