Gli unici ritratti che di lui ci sono giunti ci consegnano l’immagine di un cinquantenne precocemente invecchiato dal volto affilato e pallido. Gli occhi tristi e assenti. Un volto segnato dagli anni e dalla vita. Ma da giovane, assicurano gli storici, Francesco Paolo Gravina, nato il 5 febbraio del 1800, ottavo e ultimo principe di Palagonia e di Lercara Friddi, discendente di una delle piu illustri e ricche famiglie nobili del Regno delle Due Sicilie, sindaco di Palermo dal 1832 al 1835, era un signore ricco anche di fascino al quale lo sguardo delle fanciulle si rivolgeva con interesse.
A narrarne la vicenda umana e spirituale è Umberto Castagna, perito storico del Tribunale ecclesiastico regionale e biografo ufficiale del “Principe dei poveri”, a cui ha dedicato trent’anni di ricerche e ben tre biografie. E solo grazie a lui che la sua storia non e rimasta sepolta per sempre negli archivi.
«Una vicenda straordinaria – racconta lo storico – iniziata quando, a diciannove anni, s’innamorò di Nicoletta Filangeri e Pignatelli, figlia del principe di Cuto. Un amore folle il suo, ma anche il passo falso intorno al quale ruota tutta la sua singolare vicenda esistenziale».
Donna vivace, brillante, curiosa e bellissima, fu la stessa Nicoletta, più grande del principe di qualche anno, ad interessarsi in un primo momento a lui.
«Forse per un certo tempo lo amò davvero, questo giovane aristocratico, ricco di misteriose attrattive, piacente e insieme riservato. Forse confuse il fascino che nasceva da tutte queste qualità con un amore sincero. Sono convinto che almeno credette di amarlo veramente», commenta Castagna. Lui, invece, l’amò davvero. «L’amò – continua – perché era bella, brillante e un po’ spregiudicata; l’amò, forse, perché era così diversa dalle donne di casa Palagonia. L’amò perché credette di essere riamato. L’amo per tutta la vita, come solo sapeva amare il suo cuore di cavaliere antico».
Si sposarono il 14 marzo del 1819. Ma il matrimonio, tormentato e senza figli, naufragò dopo dieci anni perché nel frattempo l’affascinante principessa di Palagonia si era invaghita del giovanissimo e, dicono gli storici, aitante Francesco Paolo Notarbartolo e Vanni, principe di Sciara. Il palazzo dei Notarbartolo, sito nel popolare quartiere della Kalsa, distava solo pochi metri da quello dei Palagonia. Nicoletta cominciò a frequentarlo anche la notte, rincasando spesso alle primi luci dell’alba. Ancora innamorato, dopo aver tentato inutilmente di riconciliarsi con la moglie, una notte le fece trovare il portone sbarrato e un servo in livrea che, a nome del Gravina, la «invitava a tornarsene da dove era venuta». Nicoletta andò allora ad abitare, fino alla fine dei suoi giorni, col Notarbartolo.
Era il 1829. Confuso, ferito e umiliato, il principe si chiuse nel suo palazzo e nessuno ebbe più notizie di lui. Aveva ventinove anni e una ricchezza da vertigini. Per le stanze dell’immensa dimora non si sentivano più le risate e il frusciare degli abiti di lei. Per lui quel silenzio divenne assordante. Dopo circa un anno, un giorno fu visto girare con una borsa carica di monete per i vicoli della Palermo miserabile a seminare di speranza la vita di tanta gente. Qualcuno parlò di pazzia, qualcun altro di conversione.
«Da allora – dice l’appassionato biografo – tutte le sue immense proprietà, che consistevano in palazzi, ville, interi paesi e miniere di zolfo, campi di grano e vigneti e agrumeti e frutteti e mandrie di animali, furono spese solo per uno scopo: migliorare l’infinita sofferenza dello sterminato popolo degli infelici».
Confinatosi in una stanza del suo palazzo, fece aprire i battenti delle sue dimore a tutti i miserabili della città: quell’amara, orrenda processione di esseri deformi o comunque sfortunati, che al suo avo Ferdinando Francesco II era parso così spiritoso farsi raffigurare in pietra e porre intorno alla sua villa di delizia, a Bagheria, come sberleffo alla società e alla vita.
Nel 1832 fu eletto “pretore” (cioè sindaco) di Palermo. Carica che mantenne fino al 1835. Anche suo padre e suo nonno lo erano stati. Quelli furono, per lui, anni preziosi in cui le sue iniziative per la povera gente si moltiplicarono senza sosta.
«Nel campo della carità – dice Castagna – il Gravina fu un vero innovatore per i suoi tempi. La sua idea era quella non solo di dare un temporaneo sollievo ai poveri, ma di “rifarli uomini” attraverso il lavoro, l’istruzione e la formazione religiosa».
Nel 1837 in città arrivo il colera che, in poco tempo, su una popolazione di circa 170 mila persone fece più di 27 mila vittime, una strage senza pari in Europa. Tutti fuggirono tranne lui, che non volle, e i poveri che non potevano. Ad affiancarlo solo un gruppo di nobildonne e di popolane. La generosità dimostrata in quella drammatica situazione da quelle donne, gli diede l’idea di dar vita a una famiglia religiosa che si occupasse soprattutto dei poveri: le “Suore di carità”.
«Una cosa singolare nella storia della Chiesa – commenta lo storico –, anzi unica: che un laico, non sacerdote, abbia fondato e diretto un gruppo di religiose».
Esausto, si spense all’età di cinquantaquattro anni, il 15 aprile 1854. Qualche giorno prima, aveva dettato le sue ultime volontà, poi era voluto rimanere solo e aveva aspettato in silenzio la morte.
«Morì – conclude Castagna – per essersi speso senza riposo per i suoi poveri ma soprattutto mori di quello che allora si chiamava “crepacuore” o “mal d’amore”. Fino alla fine, infatti, era rimasto innamorato della moglie».