A seguito delle surreali dichiarazioni di Netanyahu e dei suoi ministri, in base ai quali le milizie della resistenza palestinese sarebbero ormai "quasi" sconfitte e che per dar loro il definitivo colpo di grazia è ineluttabile intensificare l'attacco su Rafah dove sono stati fatti ammassare i due terzi (forse di più) della popolazione della Striscia, il conflitto in atto dal 7 ottobre sembra ormai arrivato al punto di rottura: o si arriva ad un definitivo cessate il fuoco oppure la guerra si allargherà ad altri attori della regione... con conseguenze impossibili da prevedere.
Nonostante in molti continuino a dire che Israele possa sostenere il conflitto che la vede impegnata su più fronti anche dal punto di vista economico, la realtà sembra dimostrare l'esatto opposto. Moody's ha declassato il valore del debito dello Stato ebraico proprio per i riflessi che la guerra sta avendo e avrà sull'economia del Paese. Oggi, il quotidiano ebraico "Calcalist" ha riferito che 141 aziende tecnologiche israeliane hanno licenziato 34.300 lavoratori dall'inizio dell'anno. Tra queste anche il colosso della connettività Cisco ha annunciato il licenziamento di migliaia di dipendenti in Israele.
L'amministrazione Biden, in tutti i modi, ha cercato di fermare il genocidio a Gaza, mantenendo però il supporto a Netanyahu, ma ha perso credibilità e consensi in una buona fetta dell'elettorato dem, soprattutto quello dei giovani. E a novembre ci sono le presidenziali. Per tale motivo, secondo il Washington Post, la crescente frustrazione nei confronti del primo ministro israeliano avrebbe spinto alcuni collaboratori del presidente americano ad invitarlo ad essere pubblicamente più critico nei confronti di Netanyahu, che ritengono ormai non più influenzabile. Se non si può dire che Tel Aviv stia umiliando Washington, poco ci manca. Ma è possibile che - se non Biden - il partito democratico possa permettere che tale situazione possa proseguire all'infinito?
Israele, praticamente, ha ampiamente dimostrato di infischiarsene del diritto internazionale ignorando le disposizioni della Corte Internazionale di Giustizia dell'Aia, tanto che sono aumentati i disagi della popolazione a Gaza che continua a ricevere sempre meno aiuti umanitari e sempre più bombe. E a Tel Aviv non badano neppure agli infiniti appelli dell'Onu e delle organizzazioni umanitarie di non attaccare Rafah perché il massacro dei civili in atto sarebbe ancor più grande di quanto già non sia adesso.
Ma gli appelli cadono nel vuoto.
Così Hamas fa sapere che un attacco a Rafah significherebbe lo stop a qualsiasi ulteriore discussione per un cessate il fuoco, mentre l'Egitto paventa un possibile ingresso nel conflitto da parte del suo esercito.
In una dichiarazione odierna, il portavoce del ministero degli Affari Esteri del Cairo ha parlato di "terribili conseguenze" a seguito di un potenziale attacco israeliano alla città di Rafah, che si trova al confine con l'Egitto.
"L'Egitto ribadisce il suo totale rifiuto delle dichiarazioni degli alti funzionari israeliani sul lancio di un'operazione militare contro Rafah, avvertendo delle sue terribili conseguenze, alla luce della catastrofe umanitaria che minaccia di aggravarsi. L'Egitto ha chiesto la necessità di unire tutti gli sforzi internazionali e regionali per impedire che la città palestinese di Rafah venga presa di mira".
In passato, fonti ufficiali del Cairo avevano respinto l'ipotesi che Tel Aviv possa controllare il confine di Gaza con l'Egitto, il corridoio Philadelphia, minacciando non solo la rottura degli accordi in essere, ma anche il possibile ricorso ad un intervento militare.
Per questo, siamo vicini ad un punto di rottura... che può portare alla pace o all'allargamento del conflitto.