Dopo essere stati fatti sbarcare lo scorso sabato, nella notte, i 143 migranti a bordo della nave Diciotti sono stati trasferiti nell'hotspot di Messina per le procedure di identificazione.

Mentre 40 di loro saranno suddivisi tra Albania e Irlanda, quelli che saranno accolti dalla Chiesa italiana saranno spostati in un centro di accoglienza nella zona dei Castelli Romani, e da lì distribuiti tra le diocesi che, spontaneamente, hanno offerto la propria disponibilità all'accoglienza: da Torino a Brescia, Bologna, Agrigento…

Il perché dell'accoglienza e come questa sarà effettuata lo ha chiarito il sottosegretario della Cei e direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, don Ivan Maffeis, all'agenzia di stampa Sir.


Perché la Chiesa italiana ha scelto di accogliere i migranti della nave Diciotti?

«E’ stata una scelta della presidenza Cei - ha detto don Maffeis - legata alla volontà di uscire da una situazione di stallo in cui queste persone erano da diversi giorni. Davanti ad una situazione insostenibile dal punto di vista umanitario si è scelto di non andare avanti con comunicati e appelli generici ma di intervenire offrendo una disponibilità all'accoglienza concreta, fattiva e immediata.

Il governo pretendeva, anche giustamente, il coinvolgimento dell’Europa per una redistribuzione dei migranti e per affrontare in maniera comunitaria un fenomeno di portata enorme. D’altra parte è ovvio che per arrivare a concordare una politica comunitaria su un tema come quello delle migrazioni non possiamo servirci di gente in fuga dalla guerra o da situazioni di persecuzione


Come saranno distribuiti i migranti?

«I migranti saranno trasferiti nel centro di Ariccia dell’Auxilium, in attesa di essere ospitati nelle diocesi che hanno dato la disponibilità. È stata una risposta spontanea, noi non abbiamo fatto alcun appello.

La Chiesa italiana ha una tradizione d’accoglienza reale: sapere che nelle diocesi ci sono già tra 26mila e 28mila persone accolte dovrebbe farci riflettere per capire quanto stiamo enfatizzando un fatto solo perché li abbiamo bloccati lì.

Per noi era importante sbloccare una situazione oramai insostenibile. Abbiamo offerto un’accoglienza umanitaria. Nel momento in cui andiamo a redistribuire le persone sul territorio, l’applicazione del protocollo dipenderà da situazione a situazione. Questo è positivo perché si cercherà di fare progetti mirati che salvaguardino l’integrità della famiglia, ad esempio con i ricongiungimenti familiari.

In queste ore a Messina si stanno aiutando le persone a dare le proprie generalità per essere accolte in maniera degna. A fronte della disponibilità offerta da tanti bisognerà guardare qual è il progetto. Questo sarà il compito delle prossime ore, per far sì che queste persone siano veramente accolte.»


Che cosa fare in futuro?

«Credo che ci siano livelli diversi di intervento: il livello della solidarietà e dell’emergenza ci sta tutto, ma non è quello con cui possiamo affrontare fenomeni di questa portata, dove la politica e la cultura del Paese devono interrogarsi e fare la propria parte.

Sono livelli che vanno uniti: non possiamo aspettare che maturino politiche o culture dell’accoglienza che superino la globalizzazione dell’indifferenza. Ben venga che nel momento in cui c’è una situazione che ci interpella ci sia una risposta. Ma questa è una risposta di supplenza. Non è la risposta. La risposta di un Paese democratico matura attraverso ben altri processi.

Il grande nodo europeo da sciogliere è però la Riforma del Regolamento di Dublino. Non c’è dubbio. Siamo davanti ad un fenomeno enorme che non è più di emergenza. È una situazione con cui dobbiamo misurarci. Possiamo essere talmente miopi da chiuderci in una Europa fortezza ma in questo caso, oltre a lasciare fuori le persone, moriamo noi dentro. Oppure possiamo, con tutta la disponibilità possibile, trovare delle vie per affrontare il tema secondo legalità e sostenibilità e metterci in gioco.»