Innanzitutto il freddo. Arrivato in Zimbabwe in pieno agosto scoprii che l’Africa non è necessariamente calda ed umida. L’inverno australe e l’altitudine di Harare possono far scendere di sera la temperatura sino a 5-10 gradi ed occorre accendere camini e stufette.

Di giorno un’aria fresca, secca e pulita. Una vegetazione rigogliosa, una periferia sconfinata di ville con giardini ben curati. Uno Yorkshire senza pioggia e senza nebbia dove il tempo sembrava essersi fermato agli anni sessanta.

Un paese dove imperversava la lettera “Z” che in tutte le sigle degli innumerevoli enti pubblici stava per Zimbabwe: Zanu, Zapu, Zbc, Zctu, tutto un mondo in zeta. Il compromesso di Lancaster House, che aveva posto fine alla guerra di liberazione degli uomini in zeta contro i bianchi rhodesiani, offriva lo spettacolo straordinario di un paese surreale, dove in parlamento la minoranza bianca (150.000 su una popolazione di 12 milioni) conservava il 20 per cento dei seggi, dove i ministri dell’economia e dell’agricoltura erano bianchi, dove le aziende agricole migliori ( “commercial farms”) restavano proprietà dei bianchi, dove nei tribunali siedevano ancora giudici bianchi in parrucca che applicavano la common law.

Il regime di apartheid era stato ovviamente abrogato, ma la discriminazione razziale restava nei fatti della vita quotidiana. Non vi erano più autobus per neri ed autobus per bianchi, ma gli autobus erano solo per i neri, i bianchi viaggiavano in auto e si guardavano bene dal prendere i mezzi pubblici.

Non vi erano più, nei grandi magazzini, i bagni per i neri e quelli per i bianchi, ma i bagni erano chiusi a chiave e la chiave veniva data solo ai bianchi. Le belle ville erano per i bianchi, quelle modeste e le bidonvilles per i neri. Un razzismo risentito covava sotto la cenere dei molti bianchi che ancora erano rimasti nel paese.

“Loro non sono come noi” ti sussurravano mentre camerieri neri servivano il tè sotto il patio delle loro ville ombreggiate dalle giacarande e protette da silenziosi watchmen neri e da cani ridgeback addestrati a saltare alla giugulare.

Su questo microcosmo fantapolitico incombeva la figura del Grande Fratello. Alla televisione trovavi solo Lui, accendevi la radio e sentivi solo parlare delle Sue gesta, la Sue gigantografie occhieggiavano dalle pareti degli edifici pubblici.

Tutto gravitava intorno a Lui, il Compagno Robert Gabriel Mugabe, Padre della Patria e depositario di tutte le sapienze, allora Primo Ministro e poi Presidente di fatto a vita, celebrato in Africa e nel mondo, nominato Presidente dei Non Allineati (“It’s a great honour”, commentò con finta modestia). Per molto tempo un mito, quasi un Fidel Castro africano.

Ogni personalità politica o culturale italiana si avventurasse in Africa australe voleva incontrarlo a tutti i costi, ma Lui nicchiava, si faceva desiderare poi alla fine acconsentiva, da vero attore consumato.

Fece fare una lunga anticamera a Moravia ed ai suoi cari in una delle sue vacanze africane intelligenti, ma alla fine si degnò di riceverlo. Il Vate cadde in deliquio (“che profondità di pensiero politico, un grande leader mondiale”, ebbe a dire).

Partii, due anni dopo, dallo Zimbabwe e l’ultima visione del paese mentre salivo sulla scaletta dell’aereo fu quella del suo ritratto appeso alla parete della torre di controllo. Lui aveva pazienza, ci mise 38 anni per ridurre in macerie uno dei paesi più belli e ricchi del Continente africano. Soltanto il clima meraviglioso non riuscì a cambiare in peggio. Ci stavano pensando altri in altre parti del mondo.