Una importante missione archeologica in acque internazionali, la prima dopo la convenzione nel 2001 per la protezione del patrimonio culturale sottomarino, si è appena conclusa. Il sogno dell’uomo di esplorare gli abissi e scoprire tesori nascosti in fondo al mare si avvera, questa volta nel pieno rispetto dell’ambiente e del patrimonio.

Teatro di questa avventura il canale di Sicilia. Via diretta di collegamento tra Roma e Cartagine, passaggio obbligato per i collegamenti tra i porti orientali di Grecia, Turchia ed Egitto e quelli occidentali della Spagna e Francia, questo tratto di mare può sorprendere i naviganti con improvvise tempeste. Così nel corso dei secoli i suoi fondali si sono trasformati in una Pompei sottomarina.

La sfida di riscoprire quanto il mare ha nascosto e protetto finora, è stata raccolta da più paesi, Algeria, Croazia, Egitto, Francia, Marocco e Spagna, con Italia e Tunisia capofila, sotto l’egida dell’UNESCO.

La prima équipe guidata dagli archeologi italiani, si imbarcata a Trapani sulla nave francese Alfred Merlin. E’stato un veicolo sottomarino ad immergersi nelle acque troppo profonde per l’uomo. Arthur, questo è il nome del robot, ha raccolto per la prima volta le immagini di una nave commerciale romana del primo secolo dopo Cristo col suo carico di blocchi di granito, provenienti dall’Egitto, anfore per il trasporto di vino e olio.

Una seconda équipe guidata dagli archeologi tunisini ha lavorato sul versante africano del canale. In questa zona si trovano le rocce assassine, le Keith Reef. Sono scogli sommersi e quindi invisibili, che emergono dal fondale. Una insidia mortale che ha trasformato questo mare in un cimitero di navi affondate in varie epoche. Qui i relitti più recenti riportano al drammatico momento del naufragio. Risuonano ancora i nomi delle navi e degli uomini che in queste acque hanno perso la vita, come quello del capitano Robert Raynsford morto a 30 anni nel 1806 con gli uomini della sua nave, l’Athenienne.

In totale la missione ha mappato 8 relitti e catalogato i reperti, ma niente è stato prelevato. La ricerca archeologica moderna infatti tende a lasciare sul posto gli oggetti perché rimangano nel loro contesto e perché sott’acqua e senza ossigeno, si conservano meglio. Per le generazioni a venire e con il loro carico di emozioni.

Fonte: www.unesco.org/sites/default/files/medias/fichiers/2022/09/Skerki%20Bank%20Fact%20Sheet%20ENGLISH.pdf