di Lucia De Sanctis per Prison Legal News

Vincenzo Musacchio, criminologo, giurista e associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nella sua carriera è stato allievo di Giuliano Vassalli, amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, magistrato italiano conosciuto per aver guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni ’80.  È oggi uno dei più accreditati studiosi delle nuove mafie transnazionali, un autorevole studioso a livello internazionale di strategie di lotta al crimine organizzato. Autore di numerosi saggi e di una monografia pubblicata in cinquantaquattro Stati scritta con Franco Roberti dal titolo “La lotta alle nuove mafie va combattuta a livello transnazionale”. È considerato il maggior esperto di mafia albanese e i sui lavori di approfondimento in materia sono stati utilizzati anche a livello europeo.

 

Professor Musacchio, cosa pensa del rapporto tra organi d’informazione e giustizia penale?

Quando lo scontro giudiziario in alcuni processi importanti – per l'imputato o per il delitto commesso – si sposta sui mass media, non sempre è una cosa positiva. Quando si travalica il diritto all’informazione con un contraddittorio spurio attuato più per l'opinione pubblica che per la ricerca della verità allora non mi piace per niente. Direi che negli ultimi tempi è un fenomeno generale, che è riscontrato spesso, non solo in Italia. La percezione di un processo più come rivalsa che come giustizia non può appartenere alla nostra democrazia. Alcuni comportamenti della stampa, la reiterazione di notizie di un medesimo fatto, l’accentuazione di episodi singoli e che sono rappresentati come espressione di una realtà più vasta, possono far percepire in maniera diversa i fatti. L’amplificazione esagerata da parte dei media è un dato che è registrato sempre più spesso e la realtà oggettiva purtroppo lo conferma. Questo non può e non deve accadere.


Secondo lei c’è una “responsabilità” dei mass media su com’è percepito il processo penale?

C’è una responsabilità, magari non voluta, laddove c’è uno scarso controllo sul tipo d’informazione che è data all’opinione pubblica riguardo a determinati episodi criminosi e per come sono mostrati e raccontati. La notizia non può essere già un processo con colpevoli e condanne definitive date come se fossero indicatori di una realtà generale quando invece sono episodi ancora da accertare. La nostra Costituzione ci insegna che “l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”.


Cosa ne pensa della recente riforma Cartabia?

Il parere è in parte negativo giacché il fulcro dell’intervento su questo problema sembra ancora una volta essere focalizzato sull’intervento penale puro, che esperienze ampiamente e lungamente fatte hanno dimostrato non abbia avuto un’efficacia particolare. Ritengo che il problema della giustizia penale vada affrontato riapprezzando e risanando il diritto penale, il processo penale e l’ordinamento giudiziario e penitenziario. Sono per le riforme globali e non per quelle a macchia di leopardo. 


Il precedente Ministro era favorevole all’inasprimento delle pene, lei cosa ne pensa?

Le pene più severe servono a poco se il sistema penale nel suo complesso non funziona. Sono spesso un escamotage per non affrontare i veri problemi. Uno specchietto per le allodole dato ai cittadini. Concepisco la previsione di nuove figure di reato laddove la realtà suggerisca un simile intervento penale. Quando poi s’interviene per limitare il potere in concreto dei giudici di valutare i singoli episodi nella loro dimensione reale, in effetti, la legge fa un intervento che poi priva il giudice di una sua efficace attività nel dosaggio nell’esercizio della funzione penale. Mi riferisco all’improcedibilità che potrebbe voler dire che il cinquanta per cento dei processi in appello, dove c’è stata già una condanna in primo grado, non si possano celebrare. 


Rispetto ai benefici penitenziari da ampliare in tutti i modi possibili cosa ne pensa?

È un tipo d’intervento che condivido solo in parte. Se si parla di delitti con un basso livello di pericolosità sociale credo che tali benefici determinino una recidiva quasi irrilevante. Questo vuol dire che hanno un’efficacia rieducativa e di recupero. Non sono d’accordo per la loro automatica estensione quando si tratta di reati molto gravi come la corruzione, il crimine organizzato, il terrorismo, i reati ambientali. Sembra che si voglia far passare anche questo secondo aspetto che non mi trova d’accordo.  Disincentivare le cause criminogene vuol dire cambiare vita e rinunciare al proprio passato criminale. Da quest’assunto parte la vera rieducazione e risocializzazione.


Il carcere quindi deve essere l’extrema ratio?

Direi di sì, ma con la precisazione che ho fatto in precedenza. Occorre migliorare l’intero sistema penitenziario nella sua operatività, innanzitutto destinando maggiori risorse alla loro attuazione con maggiore personale e sempre più qualificato. Non bisogna essere indulgenti a prescindere, altrimenti viene meno anche il vero intento rieducativo.


Il sovraffollamento carcerario consente alla pena di essere rieducativa?

No. Il sovraffollamento negli istituti di pena evidenzia che i detenuti siano ristretti in condizioni di vita che non favoriscono il recupero ma semmai, al contrario, li spingono di nuovo all’interno di un circuito delinquenziale.


Un suo parere su un’eventuale riforma penitenziaria?

Rischio di essere scontato ma bisogna partire dalle cause del sovraffollamento. Siamo lo Stato membro dell’Unione europea (a parità di popolazione) con più persone in carcere senza processo: 19.565 (Fonte Istat 2018 ultimo dato utile). A parte la vergogna di avere così tanti detenuti in attesa di giudizio, sarebbe anche il caso di domandarsi quanto costa avere in carcere quasi ventimila persone, parte delle quali usciranno o per decorrenza dei termini o perché innocenti. Quello dei costi della carcerazione preventiva è un tema che, forse per la sua inciviltà di fronte al tema dei diritti della persona, è poco affrontato. Diamo un dato: l’Italia spende per loro oltre cinquecento milioni di euro l’anno, una cifra che può essere considerata come parte dei costi economici della lentezza della giustizia. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, al 29 febbraio 2020, in Italia i detenuti erano 61.230, a fronte di una capienza a norma delle carceri pari a 50.930 posti. Credo che basterebbe un uso meno automatico della carcerazione preventiva per cominciare a svuotare in parte le carceri e porre rimedio all’attuale sovraffollamento carcerario, a maggior ragione oggi in tempo di pandemia da Covid-19. Su questi temi in Parlamento purtroppo non si discute più. L’ho ripetuto più volte occorre agire sulla riduzione della custodia cautelare prima e durante il processo che, come sappiamo, riguarda oltre il cinquanta per cento delle persone detenute. Evitare il carcere per reati per i quali non sia necessario. Questa è la strada che deve essere battuta.


Che cosa vuol dire agli ex detenuti sapendo che alcuni di loro fanno parte della nostra redazione?

Quello che dico continuamente ai miei studenti. Coltivate la cultura della legalità, la cultura della solidarietà sociale dentro la quale c’è la cultura della rieducazione per chi ha commesso reati, perché questa è la cultura vera che poi produce misure effettivamente di tutela anche della collettività. Il vostro esempio è la dimostrazione che per essere rieducati e risocializzati occorre volerlo e occorre che vi siano le occasioni per poterlo volere e queste ultime vanno meritate.