Genova, ha i giorni tutti uguali…canta Paolo Conte. Quel pezzo, magnifico peraltro, nondimento è antigenovese e parla di “mandrogni” piemontesi e del loro rapporto con la città sotto la lanterna. No, Genova non ha i giorni tutti uguali. Soprattutto mezzo secolo fa, l’odore del mare o dei monti, portato dai venti che si avvicendavano, rendeva a volte diverse perfino le ore di una giornata e i suoi minuti. Genova è splendida, ma non vuole farlo sapere.
Il 1971 è un anno come un altro, anche se chi si occupa di cronache mette sempre cappelli storici, sociologici, antropologici fascinosi, che non tengono fermo un punto fondamentale: la vita scorre e noi la viviamo, con il suo bene e il suo male, l’aria che tira in quel periodo, le mode, le musiche. Allora, le giovanissime del popolo andavano in giro con minigonne magari a quadri, pantaloni svasati, stivali di vernice, camicette colorate. Era di moda un micidiale gioco con due palline, che provocava lividi all’interno del polso. Moriva Louis Armstrong, sulle note della sua “What a wonderful world”, imperversavano i Bee Gees, prima delle febbre dei sabati.
Ero una ragazzina genovese circa dell’età di Milena Sutter, anche se di ceto molto diverso, e conoscevo quel cognome, perché allora le casalinghe dovevano lucidare i pavimenti, e la cera Emulsio, prodotta dal papà di lei, era la più venduta in Italia, oltreché, si immagina, molto esportata. Lo slogan della pubblicità terminava con “ E’ un prodotto Sutter!”.
Arturo Sutter era un industriale d’origine svizzera; la sua famiglia, moglie, figlia, un fratellino più piccolo di Milena, era di religione protestante e abitava in una villa di Albaro, tuttora il quartiere più elegante di Genova.
Lei frequentava le medie alla scuola svizzera, un’ istituto d’élite in un quartiere semicentrale, anch’esso piuttosto esclusivo; ci dicono che si spostasse con l’autobus, senza auto e chauffeur, forse più in là avrebbe avuto il motorino, ma al momento sembrava una studentessa qualunque, se non per il tratto certamente più elegante della media. Ci è rimasta una foto, la solita, che la ritrae in montagna, il primo piano di un faccino sorridente, un berretto di lana calato sulla fronte.
Poiché ci basiamo sulla vulgata, ma l’era della rete può rendere virali informazioni errate, premettiamo come sempre che nulla è certo come pareva un tempo, a partire dall’abbrivio di questa vicenda. Non seguiremo strettamente l’andamento diacronico, ma le incongruenze.
Si narra dunque che tutto abbia avuto inizio con un’insegnante di sostegno (allora si parlava di ripetizioni) che bussa nel primo pomeriggio del 6 maggio 1971 a casa Sutter, per dare delle lezioni, chi dice di latino, chi sostiene di storia, a Milena presumibilmente sola in casa; nessuno apre, la professoressa si preoccupa e partono le ricerche.
Benché si parli anche di indagini dei Carabinieri, gli unici nomi che ricorrono sono di poliziotti della questura di Genova: il vice questore Angelo “Angiulìn “ Costa, descritto come leggendario per il suo fiuto investigativo, un tipo che era “soltanto” diplomato, vecchissima guardia insomma; il dottor Arrigo Molinari, una nostra vecchia conoscenza, da Luigi Tenco ad Al Quaeda, ucciso nel 2005 “ dal maggiordomo”; e il maresciallo che chiamiamo “ Croppo” per non svelarne l’identità, con cui parlò chi scrive, molto tempo fa.
Stava iniziando l’era dei rapimenti con richiesta di riscatto, come pure quella del terrorismo, per non parlare dei serial killer, e il capoluogo ligure fece da capofila come poche altre città in Italia: il clima era cupo, solo la nostra gioventù riusciva a ignorarlo, la vita ci chiamava e noi dovevamo risponderle.
In un primo tempo si pensa dunque a un ratto a scopo di lucro, anche perché arriva una telefonata con la richiesta di cinquanta milioni di lire (non pochi, al tempo, ma, vi assicuriamo, nemmeno molti come la situazione avrebbe consentito in teoria).
Nel frattempo si sparge la voce che, fuori da quella scuola, sostava sempre una spider rossa Alfa Romeo, con a bordo un “biondino”, giovanotto di età incerta. La squadra mobile con “Angiulìn” si muove in fretta e punta Lorenzo Bozano, ventiseienne anch’egli di Albaro. Nel frattempo, a venti giorni dalla scomparsa, il mare di Priaruggia, spiaggetta del levante cittadino, restituisce un corpo devastato: quasi nessun dubbio che sia di Milena, di lì a poco riconosciuta. I poveri resti, sempre secondo i resoconti, sono zavorrati con una cintura da sub, di una nota azienda locale che esporta in tutto il mondo.
Assistito da principi del foro, nel sontuoso ex palazzo di giustizia di piazza Matteotti, già sede dogale e oggi restituita al pubblico, l’imputato viene dapprima assolto; in appello però la sentenza viene ribaltata in ergastolo, confermato in Cassazione. Da allora, almeno a Genova, per anni, gli spasimanti di giovanette riluttanti al corteggiamento diranno ridendo: non sono mica Bozano!
Ma chi era costui, realmente? Fonti dell’autrice di questo articolo riportavano che fosse un figlio di papà, ma meno fortunato di altri: i genitori si erano separati, senza poter divorziare ( non era ancora possibile in Italia, e l’annullamento evidentemente non era stato richiesto o concesso); la madre si era rifatta una vita, aggiungendo ai cinque figli di primo letto ( tra cui Lorenzo), due dalla seconda unione. Vero che in quello che allora si chiamava “ il ceto abbiente”, una situazione simile era meno chiacchierata che tra il popolo, ma qualche disagio dovette causarlo. Le stesse fonti raccontavano che, fino alla riforma del diritto di famiglia, anche i due fratellastri più giovani dovettero tenersi il cognome Bozano e questo provocava disagi e canzonature.
Nei programmi e negli articoli leggerete che il padre del condannato detestava il figliolo, pecora nera della nidiata, lo aveva quasi disconosciuto segnalandolo ai servizi sociali quando il giovane era ventenne (ancora minore età, all’epoca), descrivendolo come maniaco sessuale, tendente alla devianza, indisciplinato e ignorante. Apprenderete che Lorenzo era un vitellone scapestrato, rintanato in una camera ammobiliata perché cacciato da tutti i familiari, pieno di debiti ( ecco l’idea del rapimento), editore fallito di una rivista per sub, viscido voyeur nei meandri del megastore “La Rinascente”, dove aveva escogitato un marchingegno a lenti, per meglio guardare sotto le gambe femminili, sulle scale mobili.
Lorenzo, tra il primo e il secondo processo, sposò una maestra del bresciano, con la quale avviò un negozio dalle parti di piazza Campetto. L’autrice di questo pezzo ce lo vide passandovi casualmente, dietro il banco con la consorte, sotto lo sguardo dei curiosi oltre la vetrina. Quando le cose si misero male, la coppia riuscì a fuggire dall’Italia; pare abbia vissuto perfino un po’ in Africa, di sicuro in Francia, dove leggenda vuole lui sia stato beccato per mancato utilizzo delle cinture di sicurezza ( obbligo dal 1973), poi spedito in Svizzera, in seguito estradato fortunosamente. Ad attenderlo alla frontiera ci sarebbe stato, appunto, Arrigo Molinari.
Il maresciallo Croppo, che sosteneva di aver lavorato nel team di indagine, non aveva dubbi sulla colpevolezza: Bozano era noto da anni come “manomortista” lubrico e molestatore seriale, in più aveva lasciato pesanti indizi di colpevolezza in giro.
Il condannato ha trascorso la prima parte della pena a Porto Azzurro, dove si distingueva per il tono acculturato, diventando direttore del giornale dei detenuti; nel 1997 fruì di permessi, ma demeritò subito: prima fallì nuovamente un’attività (un allevamento di polli, si legge), poscia, in Toscana, mise subito le mani addosso a una giovane donna, addirittura accompagnata da un bimbo, e fu rispedito dietro le sbarre. Oggi, a 75 anni, è in semilibertà, lavora di giorno, torna in carcere la sera e pare rassegnato a non ottenere la revisione del processo, anzi a nemmeno più chiederla, dopo tanto tempo trascorso e le varie disavventure.