Sono nata e vissuta a Genova, ma le mie origini  vengono da lontano. " Vorrei rivedere le immense distese dei pianori lucani della mia infanzia,  greggi e mandrie, case sparse e masserie; lo sguardo sfuggente dei contadini, il sole che inondava il mattino operoso, la vita che scorreva senza soluzione di continuità, tra nascite e morti e feste un po’ religiose e un po’ pagane; l’altura dello spoglio santuario del Carmine, da cui lo sguardo spaziava fino al mare.

E quegli odori…se potessi risentirli per un poco, il tempo di ritrovare l’anima del bambino: le piccole mele, la farina, il pane fresco di forno, la stalla".

Ecco  quanto scrivevo tempo fa.

 

Quella Basilicata non esiste più da un pezzo, e anche il mio modesto esercizio lirico appartiene alla serie dei rimpianti estetizzanti e decadenti. Oggi abbiamo una regione dove la "moderna modernità" si è insinuata, con i suoi vizi e le poche virtù, in un'area a rischio di vedere sfruttate le sue interessanti risorse e divenire una discarica per il resto d'Italia, avendo perso per strada una vocazione agricola e, perché no, turistica e intellettuale che poteva, doveva vederne il riscatto.

La Basilicata, che i miei nonni chiamavano solo Lucania, parte quindi già con problemi di nome, unica in Italia. Il nome ufficiale pare derivi dal "basiliskos" governatore, attribuito in epoca romana; sull’altro, da cui l'appellativo dei suoi abitanti, esistono alcune interpretazioni: "terra dei lupi" o "terra dei boschi", o “terra della luce”, o dal nome di antiche tribù, e fu il nome ufficiale dal 1932 al dopoguerra. Doveva appunto essere ricoperta di  foreste, prima che queste  venissero abbattute per esigenze varie, lasciandola in larga parte glabra per un attività di coltivazione comunque ardua, non nascendo quale pianura alluvionale.

Le sue dimensioni, nel contesto italiano, non sono minime: è più grande di Valle d'Aosta, Umbria, Liguria, Friuli, Molise. E' sempre stata scarsamente popolata: in parte per l'emigrazione, ma con altre concause, quali la malaria, che falcidiava la popolazione infantile  in alcuni territori, e la carenza generale di presidi ospedalieri, anche di antico stampo, quali lazzaretti o opere pie, non da ultimo per  la distanza dall'unico centro di potere operativo, Napoli.

Le due province, com'è giusto nella nostra patria di campanili, non si amano particolarmente e diverse sono anche le morfologie: più verdeggiante quella potentina, più argillosa e desertica quella materana. Anni fa la fondazione Agnelli, ipotizzando un futuro federalismo che riposizionasse i confini secondo criteri razionali, aveva assegnato la prima alla Campania e la seconda alla Puglia, idea che personalmente non trovai eccelsa.


Mi pare infatti che esista una appartenenza lucana, che si identifica in molti aspetti, ovviamente non sempre positivi, ma costituiti da riflessi sottili. E se Gianni Brera dichiarava, tronfio "preferisco essere lombardo che lucano", concedendo, bontà sua, l'amore per poeti come Leonardo Sinisgalli (nativo di Montemurro), Carlo Levi, partito per il confino insofferente all'idea di calarsi in un medioevo privo di stimoli e comodità ( siamo comunque nel 1936), se ne innamorò, decidendo in seguito di trovarvi sepoltura.


Forti sono sempre state le tradizioni, ispirate al cristianesimo ma velate di superstizioni: venerazione di santi lì molto amati, come San Rocco, processioni e offerte votive alle feste patronali, ostensione di reliquie corporali, esorcismi per tarantolati, un debole per figure carismatiche come Padre Pio, tuttora presente in effigie in molte case.

La vita era dura. Il grosso della società era composta da contadini, che coltivavano i latifondi in mano a pochi possidenti, spesso non del posto, una massa distante anni luce da una ristretta nobiltà con pretese liberali, talora simpatizzante del risorgimento e alleata dei briganti, (vedasi "(L'eredità della priora" di Carlo Alianello) e uno striminzito settore borghese, costituito perlopiù da pubblici funzionari e professionisti.


Come rilevato da osservatori del costume, i lucani, a differenza di altri meridionali, hanno poca o nulla tendenza ad associarsi fuori sede, a Milano come a New York, benché siano presenti ovunque, anche con figure di successo, per cui si tende a confonderli con campani o calabresi o pugliesi, complice anche un dialetto che è sintesi di questi tre. Il prezzo per la riservatezza e l'indole individualista porta a questo: niente confraternite o cosche.


Il turismo ha sfiorato la zona senza mai entrarvi a pieno titolo. Gli sbocchi al mare sono due: uno, di larghe spiagge, sullo Jonio, dove si trovano località balneari a target popolare (Scanzano, Policoro, Metaponto), l'altro, sul Tirreno, una striscia più scoscesa e pittoresca, ove brilla l'esclusivo gioiello di Maratea.

L'interno è ricco di aspetti interessanti: abbazie, paesi arroccati - quando risparmiati dai terremoti - , masserie spesso convertite in agriturismi, praterie di vago sapore western molto adatte all'equitazione, e tanta, tanta storia, ben sintetizzata dai "colossi" federiciani, i castelli di Melfi e Lagopesole.


Le generazioni nate fino a prima dell'ultima guerra hanno portato avanti un sentimento carico di fatalismo e fede nella divinità, a contorno del duro lavoro dei campi. Dagli anni sessanta tutto cambia. Arriva qualche industria, addirittura si crea una competitività interessante nel campo degli agrumi (pompelmi) e dei mobilifici ( soprattutto per la fabbricazione di divani).

Ma il boom dura ben poco e si torna a confidare nei posti di lavoro assicurati dalla burocrazia pubblica. Poi arriva la Fiat di Melfi. E dopo ancora la politica post Mani Pulite diventa invasiva e si arriva all'oggi: disoccupazione, denatalità, sospetti casi di gravi inquinamenti ambientali e morti sospette.

Le giovani generazioni vivono sui risparmi di chi li ha preceduti, ora più che mai, senza speranze che non siano riposte nella partenza verso altri lidi, che però all'oggi poco offrono a loro volta. La società non è più patriarcale, le aspirazioni sono quelle di tutti, le possibilità inferiori.


Il lucano, in genere non integralista né amante di sceneggiate passionali, ama far studiare i propri figli, la cultura in genere,  il focolare, la tranquillità - invero un pregio notevole in regione, che però molti lamentano confinare nella noia -, ma pare trovare una dimensione più dinamica solo quando ne esce.

Quindi, si insinua il rimpianto del perduto: i costumi antichi indossati anche nel quotidiano dalle donne; i balli sfrenati, quasi riti  pagani,  dopo la  trebbiatura; le transumanze quotidiane a dorso di mulo;i tramonti sull'orizzonte a perdita d'occhio, residuo di quelli delle terre malariche che incendiavano il cielo; i profumi di erbe aromatiche che servivano all'erboristeria casalinga;la assoluta purezza dell'aria e dell'acqua delle tante fontane e sorgenti.

E ancora, la cucina che si ingegna con ciò di cui dispone, una gastronomia essenziale che ha prodotto però un eponimo come la salciccia luganega, annaffiata da vini pregiati della zona del Vulture, vulcano spento ove troneggiano laghi e un antico convento; e i sassi di Matera, che raccontano antiche storie e oggi attirano il colto , l'inclita e qualche set cinematografico.


Qui il brigantaggio trionfò, ultima proiezione di una speranza di riscatto, dai fasti della Magna Grecia; una rinascita che i lucani devono cercare ora senza più alibi, che pure esistono: invasioni, spartizioni, una patria ingrata, una capitale lontana, lo sfruttamento sistematico.

Siamo un po' briganti, noi lucani. Un po' birichini. Mai con il potere, e lui ci punisce.