Il 13 marzo 1975, Sergio Ramelli, giovane militante del Fronte della Gioventù, veniva brutalmente ucciso a Milano. A distanza di 50 anni, la sua memoria è stata nuovamente al centro del dibattito pubblico, con una cerimonia ufficiale e la deposizione di una nuova targa presso l’istituto Molinari, dove Ramelli aveva studiato. Ma come accade spesso in Italia, una commemorazione che dovrebbe essere di unione e di riflessione si è trasformata in un’occasione di divisione e polemica.
Il Collettivo Cosmo, vicino al centro sociale Cantiere, ha manifestato contro la visita del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, contestando l’affissione della targa in memoria del giovane. “Fuori i fascisti dalle scuole” è stato il grido lanciato dai contestatori, che si opponevano ad un atto di memoria ritenuto da loro inopportuno. Una reazione che, seppur legittima nel diritto di esprimere dissenso, rivela una profonda incomprensione di cosa significhi davvero onorare una vittima di violenza politica.
La morte di Sergio Ramelli non è solo la morte di un giovane di destra, ma la morte di una persona che ha perso la vita per le sue idee, indipendentemente dal colore politico che esse rappresentano. Quando una vita viene spezzata in nome di un’ideologia, che sia di destra, di sinistra o di altro orientamento, quella vita merita rispetto e memoria. Non esistono vittime di serie A e di serie B; non esistono morti che vanno ricordati più o meno di altri. Ogni vittima della violenza politica va onorata, perché ogni morte in nome di un ideale è un monito per l’intera società, per evitare che l’odio e la persecuzione abbiano mai più il sopravvento.
Il gesto di Valditara, che ha scelto di deporre una targa in memoria di Sergio Ramelli, non è una difesa di un’ideologia politica, ma un atto di rispetto per una vita perduta in circostanze terribili. È un riconoscimento del fatto che le vittime delle ideologie, sia di destra che di sinistra, sono tutte uguali nella loro tragicità. La violenza politica degli anni ’70 ha segnato in modo indelebile la nostra storia, ma non possiamo permettere che il ricordo di quelle tragedie venga strumentalizzato per alimentare nuovi conflitti. La memoria dovrebbe essere un luogo di dialogo e di comprensione reciproca, non uno strumento di divisione.
Sergio Ramelli, come tante altre vittime degli anni di piombo, non va ricordato in funzione di un’ideologia o di una parte politica, ma come simbolo di tutte le vittime della violenza ideologica. In un’epoca in cui spesso si tende a polarizzare ogni aspetto della vita politica e sociale, sarebbe auspicabile un maggiore impegno per una memoria condivisa, che riconosca la sofferenza di tutti senza distinzioni. Le ideologie devono essere combattute attraverso il confronto delle idee, non con la violenza, e la memoria delle vittime deve insegnare a ciascuno di noi questa fondamentale verità.
In questo senso, l’invito che emerge dalla vicenda di Sergio Ramelli è chiaro: non esistono martiri di serie A e martiri di serie B. Ogni vittima della violenza ideologica merita rispetto, onore e memoria, perché il loro sacrificio ci impone di ricordare e di lottare per un futuro libero dall’odio e dalla divisione.