«... Vorrei anche che la mia visita potesse abbracciare l’intera popolazione del Myanmar e offrire una parola di incoraggiamento a tutti coloro che stanno lavorando per costruire un ordine sociale giusto, riconciliato e inclusivo. Il Myanmar è stato benedetto con il dono di una straordinaria bellezza e di numerose risorse naturali, ma il suo tesoro più grande è certamente il suo popolo, che ha molto sofferto e tuttora soffre, a causa di conflitti interni e di ostilità che sono durate troppo a lungo e hanno creato profonde divisioni. Poiché la nazione è ora impegnata per ripristinare la pace, la guarigione di queste ferite si impone come una priorità politica e spirituale fondamentale. Posso solo esprimere apprezzamento per gli sforzi del Governo nell’affrontare questa sfida, in particolare attraverso la Conferenza di Pace di Panglong, che riunisce i rappresentanti dei vari gruppi nel tentativo di porre fine alla violenza, di costruire fiducia e garantire il rispetto dei diritti di tutti quelli che considerano questa terra la loro casa.

In effetti, l’arduo processo di costruzione della pace e della riconciliazione nazionale può avanzare solo attraverso l’impegno per la giustizia e il rispetto dei diritti umani. La sapienza dei saggi ha definito la giustizia come la volontà di riconoscere a ciascuno ciò che gli è dovuto, mentre gli antichi profeti l’hanno considerata come il fondamento della pace vera e duratura. Queste intuizioni, confermate dalla tragica esperienza di due guerre mondiali, hanno portato alla creazione delle Nazioni Unite e alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo come base per gli sforzi della comunità internazionale di promuovere in tutto il mondo la giustizia, la pace e lo sviluppo umano e per risolvere i conflitti mediante il dialogo e non con l’uso della forza. In questo senso, la presenza del Corpo Diplomatico in mezzo a noi testimonia non solo il posto che il Myanmar occupa tra le nazioni, ma anche l’impegno del Paese a mantenere e osservare questi principi fondamentali. Il futuro del Myanmar dev’essere la pace, una pace fondata sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni membro della società, sul rispetto di ogni gruppo etnico e della sua identità, sul rispetto dello stato di diritto e di un ordine democratico che consenta a ciascun individuo e ad ogni gruppo – nessuno escluso – di offrire il suo legittimo contributo al bene comune.»

Questa una parte del discorso con cui papa Francesco si è rivolto alle "autorità" del Myanmar, come programmato dal potocollo del viaggio apostolico. Le parole di Bergoglio erano indirizzate, in primo luogo, alla Signora Consigliere di Stato e ministra degli Esteri Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace.



Come ospite, Bergoglio non poteva certo prendere per il bavero la premier del Paese, carica che San Suu Kyi ricopre con il titolo di Consigliere di Stato, e scuoterla per dirle "e allora con la minoranza Rohingya come la mettiamo?" Ma nel suo discorso, con tutto il tatto e l'ipocrisia della diplomazia, la discriminazione cui i Rohingya sono sottoposti faceva da sottofondo alle parole del Papa che, con tutto il tatto possibile, ha cercato di far notare quanto inopportune siano state finora le dichiarazioni e le scelte della San Suu Kyi nell'affrontare il problema.

Aung San Suu Kyi è cresciuta ed ha studiato ad Oxford, università che nel 1997 le conferì l’onorificenza “freedom of Oxford” per i "valori della tolleranza e dell’internazionalismo". Dopo le sue imbarazzanti dichiarazioni contro i Rohingya, Oxford le ha tolto l'onorificenza. Il Nobel le è però rimasto.

Accerchiata all'estero sull'argomento Rohingya, non deve esser stato con non poco imbarazzo che Aung San Suu Kyi, replicando a Francesco, si è impegnata a proteggere i diritti e a promuovere la tolleranza "per tutti", aggiungendo che il suo governo ha come obiettivo di «fare emergere la bellezza della nostra diversità e di rafforzarla, proteggendo i diritti, incoraggiando la tolleranza e garantendo la sicurezza a tutti.»

Parole quanto mai lontane dalla realtà dei fatti che, si spera, possano diventare vere nei prossimi giorni dopo il viaggio apostolico del Papa. Per il Myanmar questa visita è un'occasione per dare visibilità e promuovere il paese a livello internazionale. Ma perché ciò avvenga è porre rimedio quanto prima alle discriminazioni che hanno costretto decine di migliaia di Rohingya a fuggire dalla Birmania per ammassarsi in campi di fortuna ai confini del Paese in una situazione ben al di sotto dei limiti della sostenibilità e della sopravvivenza.

Seppur non sufficientemente intelligente, sarà comunque sufficientemente avveduta la leader Aung San Suu Kyi nel capire quanto a livello internazionale le sue parole e le sue decisioni abbiano infangato non solo la sua immagine, ma anche quella del paese? Se realmente le sta a cuore lo sviluppo del Myanmar, questa è l'occasione per dimostrarlo.