Fino agli anni ‘70 la percezione diffusa tra i cittadini del “continente” era che la mafia fosse un problema prettamente siciliano, gli organi d’informazione l’hanno presentata per decenni come un fenomeno puramente criminale circoscritto all’isola quando in realtà non era così e non lo è mai stato!

Che il problema a livello politico fosse fortemente avvertito lo dimostra l’incerto e travagliato iter per istituire una commissione parlamentare che si occupasse di studiare il fenomeno infatti la prima proposta risale al 14 settembre 1948 e veniva introdotta come “commissione d'inchiesta sull'ordine pubblico in Sicilia”, fu reiterata nel 1958 su iniziativa di Ferruccio Parri, ma fu sempre osteggiata da molte forze politiche. Solo il 20 dicembre 1962 fu approvata la legge proposta dai senatori Ferruccio Parri e Simone Gatto e la prima commissione, presieduta da Paolo Rossi, si insediò il 14 febbraio 1963 ma quattro giorni dopo si ebbe lo scioglimento anticipato delle Camere e l’attività del collegio si esaurì in quell’unica seduta. Nelle successive legislature, eccetto che nella VII, l'istituzione di una commissione parlamentare antimafia fu sempre riconfermata.  La “Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere”, è un collegio bicamerale composto da 25 senatori e 25 deputati, ormai lavora ininterrottamente dal 1962 di questo organismo parlamentare ne ha fatto parte anche Pio La Torre e Cesare Terranova come deputati del PCI.

La “Relazione di minoranza” redatta dai due deputati di sinistra (e da altri 6 tra deputati e senatori – opposizione 8, maggioranza 42) e depositata nel 1976 rappresenta una memoria storica sull’origine della mafia e spiega chiaramente la natura dei suoi rapporti con le istituzioni e ciò permette di spazzare via tanti equivoci e tanti alibi dietro i quali si sono celati personaggi ed eventi che hanno condizionato pesantemente la vita pubblica di questo sfortunato Paese.

Cominciamo a chiarire un aspetto fondamentale del problema: la mafia non è mai stata “fuori” dallo Stato, i veri mafiosi non hanno mai portato la coppola; vi sono precise ragione perché si parla ancora del “problema meridionale” e perché le regioni settentrionali vogliono la frammentazione dello Stato attraverso le “autonomie differenziate”; perché i delitti “eccellenti” sono caduti nell’obblio e sono rimasti dei “misteri” insoluti riguardo i mandanti; perché le istituzioni “trattano” con la mafia e i giudici assolvono coloro che hanno tradito la “pubblica fede” e il giuramento di fedeltà alla Costituzione; perché i finanziamenti pubblici hanno arricchito i gruppi mafiosi; perché vi è un diretto collegamento con la P2 e la massoneria; perché vi è stata  l’ascesa di Berlusconi ai vertici dello Stato; come è avvenuto l’inquinamento delle economie legali attraverso il riciclo di denaro sporco a livello nazionale e internazionale; come la mafia è entrata nel circuito finanziario nazionale ed internazionale usando banche e finanziarie, si potrebbe continuare a lungo .

Emerge un devastante rapporto simbiotico tra questo fenomeno criminale e le istituzioni che ubbidiscono a logiche estranee e talvolta in contrapposizione agli interessi generali della collettività. In questo intreccio mefitico di interessi particolari si innestano quelli di stati stranieri che dall’esterno hanno diretto e tutt’ora dirigono squallidi giochi di potere creando ulteriori problemi ad un Paese privo di punti di riferimento certi e di prospettive, strangolato da un debito pubblico micidiale usato come arma politica.

“La caratteristica peculiare che differenzia la mafia da altre espressioni di criminalità organizzata è la ricerca del collegamento con il potere politico infatti essa rappresenta un “potere informale” che occupa il vuoto di potere lasciato dallo Stato, “(…) tale compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico)”.

È storicamente acquisito che il processo di unificazione nazionale ha comportato l’avvio della trasformazione dell’economia e della società italiana in senso capitalistico sotto la direzione della borghesia che ha scelto di stringere quegli accordi e scendere a quei compromessi con le vecchie classi dirigenti dell’Italia preunitaria che dette vita a due schieramenti economici contrapposti rappresentati dagli industriali del Nord e i proprietari terrieri e nobiltà del Sud.  Tale scontro culturale-economico è all’origine del fenomeno mafioso che riferito alla Sicilia ne diviene un elemento costitutivo: il baronaggio (vecchia nobiltà e latifondisti) è l’interlocutore diretto dello stato monarchico.  La Sicilia occidentale con la capitale Palermo “è stata la base materiale della potenza economica, sociale e politica del baronaggio prima dell’Unità. Ed è qui e non nell’altra parte dell’isola che si avviano le nuove forme di collegamento mafioso con i pubblici poteri. La mafia è quindi un fenomeno di classi dirigenti. Come tale, pertanto, la mafia non è costituita solo da “soprastanti”, “campieri” e “gabellotti”, ma anche da altri componenti delle classi che esercitano il dominio economico e politico nell’isola, cioè agli appartenenti alla grande proprietà terriera e alla vecchia nobiltà. Finora si è cercato di presentare il proprietario terriero come vittima e non come beneficiario della mafia; tutt’al più si è riconosciuto che il vantaggio da lui ricevuto sia stato quello di avere nella mafia una guardia armata del feudo”.   Il prefetto Mori se la prese con i contadini affermando che i proprietari terrieri, perché ricchissimi, non potevano essere considerati mafiosi anche se “per ipotesi” avevano colluso con la mafia. “Ma se ciò fosse vero, bisognerebbe dimostrare che i gruppi sociali più forti in Sicilia in questi cento anni di unità nazionale sono stati i ‘campieri’, i ‘soprastanti’ e i ‘gabellotti’, e non i baroni e i grandi proprietari terrieri, ciò che urta perfino il senso comune”. Si voleva dare ad intendere che il “caporalato”, gli esattori delle gabelle e gli amministratori dei latifondisti erano gli interlocutori riconosciuti dalle istituzioni monarchiche e che per questo avevano il potere di trattare le condizioni economiche e politiche dell’isola.

Nei piani alti del potere, il partito moderato di Cavour concluse un patto ignobile con la baronia latifondista siciliana che impedì la crescita di una “borghesia moderna” e insieme al rifiuto dell’autogoverno mantenne il modello di una società feudale. Da questo si può constatare come in Sicilia politica ed economia erano inscindibili.  Vi è un altro aspetto importante da considerare, il popolo siciliano al momento dell’annessione del territorio isolano alla monarchia sabauda si sentì estraneo nel nuovo stato in quanto furono tradite le  promesse fatte dai capi garibaldini infatti la redistribuzione delle terre ai contadini fu soffocata nel sangue da Bixio a Bronte e tutte le repressioni successive fino a quelle dei fasci del 1893-94 inoltre viene negata l’aspirazione all’autogoverno. Questa annessione comportò un aggravamento per le classi contadine che dovettero pagare tasse ingiuste, fu introdotto il servizio militare obbligatorio, aumentarono le vessazioni delle classi dominanti e la corruzione.

Ristabilito lo status quo, l’aristocrazia terriera ebbe bisogno di un forte potere repressivo per tenere sotto controllo i contadini, lo Stato sabaudo non era in grado di provvedere per cui utilizzò i campieri, i gabellotti e i soprastanti come sevizio d’ordine garantendo loro impunità. In questo modo si viene a creare un intreccio tra potere mafioso, potere “informale” e potere statale che porterà gradualmente ad una compenetrazione tra mafia e potere politico con l’obbiettivo di soffocare ogni tentativo di cambiamento a favore delle classi meno abbienti.  I ceti medi potevano solo aspirare a divenire proprietari terrieri e ad essere cooptati e affiliati alla classe dominante e, i più fortunati, procacciarsi un titolo nobiliare. In questa parte della relazione gli autori riassumono settant’anni di storia italiana dall’annessione al periodo fascista.

“La mafia, d'altro canto, ricerca un consenso di massa per meglio raggiungere i suoi obiettivi. La mafia fa leva sull'odio popolare contro lo “Stato carabiniere”, contro un potere statale estraneo, antidemocratico ed ingiusto, che nulla offre al popolo e sa solo di mistificazione, utilizzando il malcontento popolare per fini contrari agli interessi reali del popolo siciliano: essa ha bisogno dell'omertà per assicurarsi l'impunità nei suoi delitti, e cerca, anzi, la solidarietà dei siciliani. Viene così qualificato “sbirro” chi riconosce l'autorità dello Stato, che è per sua natura nemico della Sicilia: il siciliano non deve riconoscere lo Stato di polizia, anzi si sostiene che da questo Stato, che l'opprime, si deve difendere. In tal modo la mafia riesce a dominare il popolo siciliano ed a giustificare il suo potere extralegale. Ecco la radice dell'omertà, a cui certo si aggiunge la paura, il terrore della rappresaglia, che la mafia organizza contro chi si ribella alla legge della omertà. Ma questo gioco della mafia ha successo perché lo Stato non sa offrire al popolo siciliano null'altro che la repressione e egli stati d'assedio: nel 1860 con Bixio, nel 1863 col generale Covone, nel 1871 col prefetto Malusardi, che menò vanto di aver debellato la mafia, ricevendone onori e precedendo in ciò il prefetto Mori e, infine, con la repressione del movimento dei fasci, nel 1893-94, sino al fascismo. Ecco la ragione del fallimento storico della lotta alla mafia. Un particolare interesse ha l'analisi del fenomeno mafioso, di fronte al fascismo. Con l'avvento del fascismo gli agrari si sentono più tranquilli. Il potere fascista garantisce, in prima persona, la repressione del movimento contadino. Ecco perché si affievolisce il bisogno di far ricorso al potere extra legale della mafia: la pace sociale è garantita dallo Stato legale, che offre agli agrari grossi vantaggi nella immediata modifica dei patti agrari a danno dei mezzadri e dei coloni siciliani e nel prolungamento della giornata lavorativa del bracciante. La miseria nelle campagne siciliane, nel periodo fascista, è spaventosa: vi è una disoccupazione di massa. Si conoscono, poi, le conseguenze nefaste della battaglia del grano, di quella politica economica che portò alla riduzione delle aree trasformate a vigneto, ad agrumeto, ad ortofrutticoli. Ai braccianti venne offerto il miraggio delle terre di Abissinia. Aumentò la superficie delle terre incolte e mal coltivate. C'è poi una leggenda da smentire: che nel periodo fascista esistesse l'ordine assoluto. La verità è che la stampa non libera non raccontava tutto e quindi non si sapeva quante rapine, quante estorsioni, quanti sequestri di persona in quel periodo avvenissero. Lo stesso prefetto Mori, nella sua autobiografia, mentre afferma di aver dato un colpo alle bande organizzate nelle Madonie, e quindi al banditismo vero e proprio, sulla questione della mafia non riesce a dire niente di serio: anzi, a un certo punto, mena vanto di avere integrato nel sistema fascista i “campieri” dei feudi.

Ecco perché la mafia non è scomparsa, perché nel periodo fascista ha potuto vegetare all'ombra del potere senza bisogno di compiere gesti particolarmente clamorosi. L'alta mafia uscì indenne dalla repressione fascista. La repressione indiscriminata, con le retate di massa, le perquisizioni su larga scala nelle case della povera gente all'epoca di Mori, ed in quelle successive, i metodi vergognosi della polizia fascista, il sistema delle torture per far confessare imputati spesso innocenti, sottoposti a sevizie inenarrabili, ebbero il triste risultato di alimentare l'odio di massa contro lo Stato”.

La modalità della liberazione della Sicilia nell’estate del 1943 produsse il risveglio della mafia preoccupata che il nuovo regime apportasse delle modifiche allo status quo delle classi meno abbienti (come poi si verificherà). I proprietari terrieri presero contatto con le forze di occupazione angloamericane che si erano relazionate con i gruppi conservatori mentre i servizi segreti avevano usato elementi criminali siculo-americani per preparare lo sbarco in Sicilia e stavano insediando sindaci mafiosi in molti comuni. Questa situazione era stata resa possibile dalla debolezza delle forze antifasciste e la passività della popolazione. Il progetto separatista della mafia ebbe breve vita perché dipendeva dal nuovo potere politico. Una parte della mafia e dei proprietari terrieri si schierarono sulle posizioni del partito liberale, del partito monarchico e qualunquisti che erano dei contenitori dei vecchi reggitori, notabili del periodo pre-fascista. Era stato indetto per il 2 giugno 1946 un referendum per scegliere la forma di governo dello Stato tra Monarchia e Repubblica, la baronia terriera si stava accordando per il distacco della Sicilia dall’Italia nel caso di vittoria della Repubblica e di insediare in Sicilia la monarchia sabauda, come punto di riferimento per un “ritorno vandeano verso il Continente”. Da qui i collegamenti realizzati dai monarchici con il bandito Giuliano, fino alla strage di Portella della Ginestra. Ecco cosa narra la relazione su quel tragico evento.

“Tale strage si colloca in un momento decisivo della vita politica siciliana: all'indomani delle elezioni della Assemblea regionale siciliana che aveva visto i partiti di sinistra, uniti nel Blocco del popolo, conquistare la maggioranza relativa dei voti e quindi il diritto ad assolvere ad un ruolo decisivo nel governo regionale, e mentre c'è la crisi dello schieramento antifascista sul piano nazionale e internazionale a Roma si apre la crisi di governo con l'obiettivo di escludere il PCI e il PSI dal governo per bloccare le riforme delle strutture economiche e sociali del Paese. Risulta evidente che ad armare la mano di Giuliano furono forze collegato al blocco agrario siciliano (e anche a centrali straniere) che intendevano sviluppare un aperto ricatto verso la DC per indurla a rompere con i partiti di sinistra in Sicilia contribuendo così ad accelerare anche la rottura sul piano nazionale”.