Nel suo ultimo articolo “Il lungo declino dei partiti (e il futuro incerto del Pd)”, sul Corsera del 12/3, Ernesto Galli Della Loggia, politologo e studioso di storia dei partiti, fa un analisi piuttosto cruda della realtà del PD dopo le dimissioni del segretario Zingaretti.
L’autore fondamentalmente vede la causa della discesa agli inferi del PCI ed anche di tutti i partiti tradizionali nel passaggio di potere dal centro alla periferia, con l’elezione diretta dei sindaci ed in seconda battuta con il passaggio di competenze alle Regioni.
Riporto integralmente la parte di articolo: “Il suicidio avvenne in due tappe, grazie a due decisioni convergenti. La prima fu il nuovo sistema di elezione diretta dei sindaci con il potere attribuito loro di scegliersi una giunta di propria fiducia (1993); la seconda l’elezione egualmente a suffragio diretto dei presidenti della giunta regionale (1999) — quest’ultimo provvedimento enormemente rafforzato nella sua portata dal successivo nuovo Titolo V della Costituzione (2001) con il relativo, inconsulto allargamento dei poteri delle Regioni. Cioè del potere dei presidenti delle loro giunte, gratificati all’istante e per sempre del titolo abusivo di «governatori» che nessuno sarebbe più riuscito a togliergli.”
Io non mi trovo per nulla d’accordo su questa tesi, il PCI aveva un controllo del territorio unico, dalle sezioni alle federazioni provinciali e regionali per arrivare al vertice nel comitato centrale, nella direzione e segreteria, vi era un organizzazione incredibile, capace di muovere milioni di persone.
Il passaggio di poteri avrebbe dovuto avvantaggiare chi sul territorio la faceva da padrone e così è stato per molto tempo.
Nel 2015, infatti, solo tre regioni erano del centro destra, a dimostrazione di quanto affermo.
Qualcosa di diverso è successo nell’elettorato di sinistra che ha provocato la crisi del PD e non è stato sicuramente il passaggio di poteri.
Con l’arrivo di “mani pulite” nel 1995 è montata un onda antipolitica ed antipartitica, cappeggiata all’inizio dalla Lega ed in seguito moltiplicata dal M5S che nel 2018 ha fatto precipitare il PD ai minimi termini. L’ex elettorato del PCI ha ritrovato nuove parole d’ordine in cui si è riconosciuto e si è sparpagliato in questi movimenti di natura popolare.
Io credo che l’elitarismo dei dirigenti del PD, il sentirsi sempre e comunque dalla parte della verità, ha provocato una frattura insanabile con il popolo delle sezioni e dei Festival dell’Unità, perché ha perso quel linguaggio che li univa e che era comprensibile ai più.
A questo motivo di comunicazione va ad aggiungersi la perdita di una visione della società, in cui il partito è immerso, cosa che non gli permette oggi di trovare un’idea progettuale di futuro per il paese e non gli permette anche di trovare a chi rivolgersi.
Perso il contatto con la classe operaia, di cui era stato il punto di riferimento, il PD non ha saputo trovare di chi potersi dire il rappresentante e così è diventato rappresentante di imprenditori, grandi banche e gruppi di potere, in un minestrone sgradito a tutti.
Enrico Letta che ha assunto in questi giorni la guida del partito ha due enormi problemi da risolvere.
L’alleanza con il movimento della contraddizione politica, il M5S, da una parte, e la squillata di campanello al Nazzareno, dall’altra, del movimento delle sardine che pretende ora di riscuotere il compenso, per l’appoggio alle elezioni regionali, sono due macigni che se non risolti subito porteranno il PD alla sua prematura dipartita.
Se Ernesto Galli Della Loggia parla di un “futuro incerto”, io parlerei piuttosto di un “futuro ipotecato”, ipotecato da scelte sbagliate e da una leadership divisa e settaria, troppo presa dai propri interessi di corrente più che di quelli del proprio elettorato di riferimento.