CASERTA - Con l'intervista che riportiamo qui in parte, il Centro Studi della provincia di Caserta "Antica Terra di Lavoro", attraverso il suo vice presidente il Dr. Tommaso Tartaglione, ha  voluto dare riconoscimento al Prof. Olindo Isernia per aver condotto, per oltre 45 anni, studi su periodi inesplorati della storia casertana, con metodo scientifico ed oggettività, senza che trasparisse mai la propria opinione.

 

Dalle insorgenze popolari al brigantaggio, dai prefetti del Regno d’Italia alle amministrazioni comunali di Caserta. Questi sono i principali temi che dal 1978 ad oggi il prof. Isernia ha affrontato lasciando alla provincia di Caserta pagine preziosissime di ricerca storica.

 

Professore quando e dove è nato?

«Sono nato il 26 luglio 1947, nel giorno di Sant’Anna, a Caserta, da genitori casertani, in via Colombo al secondo piano del palazzo abbattuto dove oggi c’è la pasticceria Chirico. Era della famiglia Di Biase».

 

Che studi ha fatto?

«Ho fatto le scuole elementari dalle suore di Sant’Antida. Da casa mia mi vedevano nel loro cortile mentre facevamo ricreazione. Per le scuole medie in genere la borghesia casertana iscriveva i figli al Giannone, mentre io ho frequentato la Vanvitelli che all’epoca era ubicata nel Palazzo reale con accesso dalla Flora. Per arrivare alle aule era una scalata interminabile, mentre per andar via era una corsa sfrenata, da incoscienti, ci si poteva far male seriamente. L’accesso all’ascensore era riservato alle donne e agli insegnanti. In genere chi andava alla Vanvitelli non proseguiva al liceo classico, ma al contrario andai al Giannone nella sezione A, sotto il preside Fava, e il mio primo docente fu il prof. Vanella.

Successivamente mi iscrissi all’università, anche se ero molto indeciso tra Medicina e Lettere. I miei genitori mi consigliarono quest’ultima e così mi iscrissi all’indirizzo storico ma non avevo alcuna intenzione di cominciare a fare ricerca storica, quanto piuttosto di insegnare. Fu così che, una volta laureato, ebbi l’incarico in una scuola media di Busto Arsizio, ma il primo anno risiedevo a Varese. Questa era una città molto piovosa ma non nebbiosa. Una rarità. Quando la mattina partivo col treno, dopo tre o quattro stazioni bruscamente calava un muro di nebbia. Vi insegnai due anni e poi chiesi il trasferimento a Caserta e lo ebbi con ritardo, a novembre, perché in quell’anno ci fu il colera – eravamo nel 1973 – che ritardò i lavori in provveditorato. Avevo 13 ore di cattedra a Roccamonfina e 4 ore di doposcuola ad Ailano. Attraversavo villaggi sperduti dove c’erano ancora donne che lavavano i panni nei lavatoi pubblici. Scene da Ottocento. Ho insegnato, poi, a Macerata Campania, Capodrise, Santa Maria a Vico, Cervino ed Arienzo. Ebbi, infine, l’abilitazione alle scuole superiori. La prima è stata a Santa Maria a Vico abbinata al Geometra Buonarroti di Caserta con il preside Scaravilli. Poi da lì al Cesare Pavese in via Acquaviva. Alla fine chiesi il trasferimento all’istituto Terra di Lavoro dove ho insegnato per 12 anni e sono andato in pensione a soli 55 anni».

 

Come si è trovato nel nord Italia?

«All’epoca, agli inizi degli anni ’70, non c’erano pregiudizi. Varese era una città ricca e si viveva bene e si mangiava bene. I rapporti con i settentrionali non erano certamente ottimi, penso anche per colpa dei meridionali. Qualche volta si vedevano certe scene sui treni quando salivano gruppi di 7, 8, 10 persone che facevano fracasso. Tutte cose che ai settentrionali dava giustamente fastidio. Personalmente non ho mai avuto alcun problema, dipendeva molto anche dal livello. Esisteva, però, una forma di razzismo. Su La Prealpina, che era il giornale locale di Varese, si pubblicavano avvisi di affitto case “escluso i meridionali”. Rispetto a molte zone nostre, gli studenti però erano rispettosi e le scuole ben organizzate.

In una scuola a Capodrise, invece, le aule si trovavano in un palazzo privato dove gli studenti durante l’ora di ricreazione andavano nel cortile e mangiavano una merenda. Al termine arrivavano delle galline a razzolare le briciole. Certamente l’ambiente non era ottimo perché non dipendeva solo dall’ambito familiare. Passavano, infatti, dalle loro case in un ambiente ancora più degradato com’erano certe scuole di allora, molto raffazzonate. Nella provincia di Caserta, soprattutto nell’Alto casertano, alcune aule erano, addirittura, anche nelle stalle e questo avveniva perché la riforma della scuola media unificata fu promulgata all’improvviso, come al solito, senza il supporto di tutte le strutture. Ecco perché si dovettero adattare a scuola edifici vecchi e cadenti i cui proprietari correvano a dare in affitto perché non sapevano cosa farsene di quei ruderi. Trovavano comodo affittarlo alle scuole per avere una mensilità sicura. Nel Settentrione i bidelli dovevano indossare un camice nero ed erano persone educatissime e rispettose. Al sud, invece, ho trovato l’eccezione ma non la regola».

Questo la dice lunga sulla classe dirigente locale dell’epoca?

«Esattamente. Anche questa ha frenato lo sviluppo. Caserta non ebbe acqua potabile fino a quando non arrivò un commissario prefettizio il quale fece un piano per realizzare un acquedotto in una città che non aveva acqua potabile e che versava in una situazione igienica spaventosa. Sull’arretratezza del Mezzogiorno molto ha contribuito il non buon governo degli enti locali e del personale. Un caso fra tanti è quello del consiglio di fedelissimi di Alfonso Ruggiero. Come uomo di cultura nulla da dire, ma per quanto riguarda la politica anche lui era coinvolto nelle situazioni che si creano in politica inevitabilmente, ma era un uomo onesto».

 

Ha un periodo storico che preferisce?

«Non ho mai condotto studi secondo preferenze. Chissà se un giorno si arriverà alla compilazione di una storia di Terra di Lavoro e della provincia di Caserta per la seconda parte in maniera completa. Ci sono anche pagine belle della storia di Caserta come per esempio il periodo della Prima guerra mondiale per le iniziative di sostegno che vennero dalla città a favore dei soldati che andarono a combattere, per le iniziative di raccolta di fondi, di assistenza ai giovani scolari, ai bimbi che non frequentavano più la scuola. Addirittura c’è stato il caso particolare di un direttore della scuola elementare, Ciro Pagliuca. A scuola c’era un laboratorio, si preparavano maglie che si inviavano al fronte, e lavorava anche lui. Sono interessanti anche gli anni post bellici della Seconda guerra mondiale. Anche la giunta milazziana nel 1959».

 

Quali periodi non sono stati ancora studiati approfonditamente?

«Un periodo vuoto è quello che riguarda il Decennio francese. Da alcuni documenti emergono alcune corrispondenze del vescovo Rogadei e fatti inediti. Non sappiamo niente di insurrezioni, ribellioni, arresti. Si dovrebbe indagare anche il periodo borbonico tra i due momenti rivoluzionari 1820/21 e il 1848. Manca una maggiore localizzazione degli eventi. Anche la ricerca della vendita dei suoli demaniali, che non ho terminata. Andrebbero approfonditi gli anni che precedono la Prima guerra mondiale.

Anche il Ventennio fascista deve essere indagato ancora. Non sono state fatte perché sono ricerche più gravose e poi non si ha la sicurezza di trarne quello che si vuole per poterne fare un saggio. Non si ha certezza di arrivare a un risultato sicuro, determinante. Bisognerebbe studiare gli anni successivi al podestà Giovanni Tescione, cosa è successo in provincia. È il periodo in cui sorgono le banche, in cui si affermano i radicali. Quello dell’assistenza dell’ECA [Enti comunali di assistenza] dopo la Seconda guerra mondiale, uno spaccato per capire anche i livelli di povertà che esistevano a Caserta in quel periodo. La situazione delle case, la gente come viveva. Tutta la storia amministrativa del comune di Caserta dal secondo dopo guerra. Capire i meccanismi con cui si amministrava la città».

 

Quale storico locale ha apprezzato?

«Carmine Cimmino sicuramente, Aldo Di Biasio che ha studiato moltissimo Terra di Lavoro, un altro che si distingue molto è Felicio Corvese. Sono stato contento di Paolo De Marco, anche se napoletano, perché ha realizzato una bella sintesi sull’età giolittiana in Terra di Lavoro in cui abbraccia tutto il sistema politico di Giolitti, l’evoluzione del partito socialista. Anche Lucia Giorgi è una studiosa seria, conosco solo lei come storica donna, e la stimo».

 

Quali sono i pregi e i difetti degli storici casertani?

«Non li conosco tutti, anzi ne conosco pochi. Mi è sempre dispiaciuto di non vedere giovani impegnati nella ricerca storica. Anzi è un fatto lodevole che voi del Centro Studi della Provincia di Caserta stiate cercando di mettere su un centro di studi storici. Avrei potuto ancora lavorare ma gli occhi non me lo consentono più. Ad un certo punto c’è bisogno della sostituzione, che arrivino altre forze. Caserta è una delle province in cui la ricostruzione storica delle sue vicende è la meno realizzata rispetto alle altre province. Perché? Salerno, per esempio, ha avuto la sua facoltà di lettere, e quindi di storia. Qui, invece, c’è una facoltà in cui non si fa la storia del territorio. È tutta gente che viene da fuori Caserta e vi trova il posto libero senza vivere il territorio e la sua storia. L’ente comunale, poi, dovrebbe promuovere la cultura».