Il Venezuela prima dell’arrivo di Chavez era un paese in condizioni economiche e sociali disastrose.
Il reddito pro-capite era di 4105 dollari l’anno (fonte: Banca Mondiale), il 14,5% della forza lavoro del paese era priva di occupazione, il tasso di mortalità infantile era molto alto (20 morti ogni 1000 nati – fonte: Banca Mondiale), il 23,4% della popolazione viveva in condizioni di estrema povertà (fonte: Istituto Nacional de Estadistica) e la grande disponibilità di petrolio del paese fruttava al governo solo 14,4 miliardi di dollari di entrate attraverso le esportazioni (fonte: OPEC).
In questo clima sociale molto difficile, l’ascesa di Chavez fu irresistibile. Trascinato dal malcontento causato dalla vecchia politica, riuscì a raccogliere i consensi del popolo e a vincere le elezioni nel 1998. Con la sua politica si attirò subito le antipatie della comunità internazionale, infatti uno dei suoi primi provvedimenti fu di nazionalizzare la PDVSA (Petròleos de Venezuela S.A.) e per questo entrò in contrasto con le grandi multinazionali americane ed europee (anche l’italiana ENI) che si videro scippare la gestione diretta dei ricchi giacimenti.
L’interesse di Chavez non si concentrò solo sul petrolio. Lui aveva vinto le elezioni promettendo una svolta socialista, si dedicò quindi alle gravi emergenze sociali del paese. Benché all’estero di lui dicessero peste e corna, alla sua morte ha lasciato un paese con un reddito pro-capite di 10.810 dollari l’anno (più che raddoppiato), una disoccupazione calata al 7,6% (quasi dimezzata), mortalità infantile scesa a 13 bambini morti ogni 1000 nati, e solo l’8,5% della popolazione in condizioni di estrema povertà. Le riforme sociali di Chavez, tra cui spiccano la riforma della sanità e quella del lavoro, portarono quindi i loro frutti.
Anche la politica sul petrolio di Chavez portò i suoi frutti, con le esportazioni di greggio che nel 2011 raggiunsero i 60 miliardi di dollari (più che quadruplicate rispetto l’inizio del primo mandato). Il governo bolivariano, osteggiato dagli USA, trovò nella Cina e nel Giappone nuovi clienti, stringendo con loro anche degli accordi commerciali grazie ai quali poté ricevere pagamenti anticipati da investire nella gestione delle politiche sociali.
Nonostante il grande successo delle politiche sociali del presidente Chavez, che gli valsero tre rielezioni e lo tennero al governo fino alla morte, sopraggiunta nel 2012 per un cancro, la sua gestione fu gravemente lacunosa sia sul piano della sicurezza che su quello economico.
Sul piano della sicurezza, gli omicidi volontari alla fine del suo ultimo mandato erano più che raddoppiati rispetto al primo anno in cui aveva governato.
Il piano economico è quello da tenere più in considerazione per comprendere cosa sta succedendo oggi in Venezuela. Sotto i vari governi di Hugo Chavez, l’inflazione è sempre stata altissima, toccando picchi oltre il 31% sia nel 2003 che nel 2012 (fonte: Fondo Monetario Internazionale).
Dopo la morte di Chavez, che già non era riuscito a far calare l’inflazione mai sotto il 12% (il valore più basso fu il 12,5% registrato nel 2001), con Maduro le cose sono precipitate. Il nuovo governante, sotto pressione per l’emorragia di consensi causata proprio dal deteriorarsi delle condizioni economiche del paese, si è dedicato esclusivamente alla soppressione del dissenso e ad una scellerata campagna mediatica. Non ha neanche provato a contrastare la crisi economica con misure efficaci, si è limitato a dare la colpa agli USA e a definire tutto un complotto. Emblematico è stato il suo tentativo ad agosto del 2018 di recuperare consensi aumentando di trentaquattro volte il reddito minimo dei lavoratori venezuelani, incurante del fatto che la moneta venezuelana già non valesse più nulla e con quel reddito non ci si potesse acquistare neanche un chilo di pomodori.
La scellerata noncuranza di Maduro e la sua scelta di preoccuparsi solo della propaganda hanno così acuito la crisi economica, distrutto quanto di buono aveva fatto Chavez sul piano sociale e portato il Venezuela nelle tremende condizioni in cui è oggi, senza corrente per gli ospedali e senza cibo nei supermercati.
In una situazione del genere, non poteva mancare l’intervento americano. Trump, da squalo dell’imprenditoria, ha visto l’opportunità economica: il governo bolivariano è in ginocchio, basta poco per farlo cadere e rimpiazzarlo con qualche alleato compiacente che riapra le porte alle multinazionali americane del petrolio. Ecco come nasce il fenomeno Juan Guaidò.
La comunità internazionale, invece di lasciarsi trascinare nel gioco di Trump, avrebbe potuto censurare il governo Maduro, ormai palesemente autoritario, e auspicare nuove elezioni, senza però appoggiare l’autoproclamazione di Guaidò. Si sarebbe trattato di spingere per una soluzione democratica della crisi, invece subito la Russia ha scelto la barricata opposta a quella degli USA, seguita dalla Cina, e si è creata una spaccatura che sta precipitando il Venezuela in una lunga e terribile guerra civile.
Mentre Maduro cerca disperatamente di restare a capo delle macerie in cui ha ridotto il paese, e mentre il resto del mondo gioca a Risiko sulla pelle del Venezuela, a pagare le spese di questa situazione sono i venezuelani. Senza cibo e viveri, senza corrente negli ospedali, con i soldati fedeli a Maduro che sparano agli indios che provano a far entrare gli aiuti umanitari, e con gli americani che usano gli aiuti per dare la spinta decisiva al loro fantoccio Guaidò.