Esergo:

«A me pare che in questo “periodo storico” molti parlino di estinzione della specie (intendendo la cosiddetta umana), forse un ennesimo ciclo che si ripete per dimostrare le insofferenze alla vita e confermare le solite “sofferenze” tradotte in lamentele deboli. Uomo? Sempre e (forse) da “sempre” il parassita di uno spazio che desidera sedurre il bisogno di volontà, espresso massimamente in dominio e sopruso: potere è colui che “schiaccia la testa del serpente”, per così scrivere. E certo, quella potenza non dovrebbe e non deve emergere, giacché è sempre stata "forza". Leader di stati come Achilléus? Davvero? Da pievelóce alla contemporanea velocità imperante? Da piè rapido alla rapidità di cambiamento relazionale? 5G? A quale velocità viaggiano i nostri cervelli? Quanto sono rapidi chiacchiericci, stupidaggini e stupidi? Rappresentazioni di simulacri, idola! Inautentico boia. Deve sopravvivere la debolezza degli esseri fragili, vili, stolti, mancanti, piccoli, dannosi. Piccolo frammento di carbonio, forse trasportato da meteoroidi, inutile alla vita giacché morto, partecipante della morte, esistentivo che crede, si fida e qualcosa fa, ma non vede. Tutti vogliono essere Napoleone?».
 
I. L'Autopoiesi dell'Errore: L'Uomo come Aberrazione della Materia

L’uomo rappresenta un’anomalia nel processo entropico universale, un vettore di discontinuità all’interno della fluidità cosmica che si auto-percepisce come necessaria. Si insinua nel tessuto del reale come un vettore di disequilibrio, un agente che crede di trascendere la propria contingenza attraverso la narrazione e la manipolazione concettuale. Se ogni organismo è un fenomeno emergente della termodinamica, l’uomo par sia l'essere che si attribuisce un mandato ontologico inesistente, quando semplicemente non ha gli strumenti per concepire il problema.

«Meraviglia del creato?».
 
Le specie precedenti hanno accettato il loro annientamento senza sviluppare il feticismo dell’autocommiserazione. Nessun'ammonite ha lasciato scritti sulla propria scomparsa. L'uomo morto, l'uomo liquido, invece, tentano disperatamente di testimoniarsi, di procrastinare la propria dissoluzione attraverso artefatti culturali, come se il simbolico potesse sfidare l’irreversibilità dell’entropia. Il suo problema non è la fine, ma la necessità di spettacolarizzarla, di attribuirle una scenografia che legittimi la sua paura e giustifichi la sua vanità. L’uomo crede di aver vinto quando schiaccia la testa del serpente, ma il serpente non muore: si svuota della sua pelle e continua a scorrere, mentre l’uomo si illude di averlo fermato.

«È stata un’ottima trasmissione televisiva, devo dirlo. Gloria».

«Ora sì, ecco. godo!». 
 
II. L'Imperativo Biologico e l'Illusione della Finalità

Il pregiudizio della vita è il più pervasivo degli assunti antropocentrici. L’uomo crede che il vivente abbia una funzione, che la sua permanenza sia il riflesso di una teleologia superiore, quando in realtà il bios è un’auto-organizzazione della chimica inorganica, un pattern emergente senza finalità intrinseca. Il cosmo non è progettuale. Non distingue tra essere e non-essere. La permanenza e l’annichilimento sono meri stati transitori della materia, non obiettivi, non traguardi.

Eppure, l’uomo reifica l’esistenza in una struttura semantica che lo confina: impone una tassonomia alla realtà, un sistema di valori arbitrario che esiste unicamente per confermare la sua fragile posizione ontologica. Egli si convince di essere il custode di un lógos che lo trascende, quando è invece il suo stesso linguaggio a limitarlo, a impedirgli di vedere oltre le categorie che ha edificato per proteggersi dal vuoto.

III. Il Potere come Entropia Organizzata

Potere è colui che schiaccia la testa del serpente. Ma che cos’è il potere, se non l’ossessione per la propria perpetuazione? L’uomo è l’unica specie che ha trasformato il dominio in un fine e non in una mera strategia di sopravvivenza. Ciò che distingue il suo impulso predatorio da quello delle altre forme di vita è l’incessante volontà di controllo, l’ostinazione nel voler ordinare ciò che per sua natura tende alla dispersione.

Ma il potere non è una struttura consolidabile: è metastabile, un tentativo di opporsi alla decadenza attraverso la sovrascrittura continua delle condizioni materiali. Ogni impero che ha innalzato è crollato sotto il peso della sua stessa inerzia, ogni tecnologia che ha sviluppato ha accelerato il collasso che intendeva scongiurare. Se la civiltà è un accumulo di sovrastrutture, è anche una necrosi che si illude di poter cristallizzare il divenire.

L’uomo non domina: orchestra il proprio declino, narrandolo per illudersi di controllarlo.

IV. Il Paradosso dell’Autocoscienza: L’Inutile che Parla

Che cos’è la coscienza, se non il più inutile dei sottoprodotti dell’evoluzione? L’uomo crede che il suo pensiero abbia una risonanza oltre la propria finitezza, che la sua capacità di rappresentazione gli conferisca uno statuto speciale nell’economia dell’essere. Ma il cosmo non archivia, non memorizza, non registra. Non ha uno spazio per la sua voce.

Tutta la sua produzione simbolica — dalla metafisica alla scienza, dall’arte alla politica — è un’architettura fragile, un simulacro che crollerà senza lasciare traccia. Crede di aver prodotto cultura, quando in realtà ha solo accelerato la propria evaporazione. Il suo più grande inganno? L’illusione che il sapere possa esistere senza chi lo osserva. Il suo più grande fallimento? Non comprendere che è sempre stato una fluttuazione irrilevante nel caos.

«Ma se l’uomo è un errore, non è un errore che si estingue: è un errore che si replica, si conserva, si incide nella roccia, si archivia nei circuiti, si ostina a credere che il passato possa essere trattenuto, che il ricordo possa arrestare la dissoluzione. Ma non c’è memoria che resista all’onda: anche la pietra, anche il silicio, tutto è solo polvere in attesa di disperdersi».
 
Il tempo non ha memoria. L’universo non raccoglierà la sua ultima riflessione.

V. L'Ultimo Atto: Il Serpente si Solleva

Ma l’errore più profondo dell’uomo è credere di poter distruggere il serpente.

L’illusione di controllo è grande inganno. La storia dell’uomo è la storia di chi crede di poter schiacciare la testa del serpente, ossia di fissare il divenire in una forma definitiva, domare il caos, imporre un ordine irreversibile. Egli si racconta come il vincitore della natura, il dominatore della materia, il superatore delle forze primordiali. Ma il serpente non è un’entità da abbattere: è il principio stesso della trasformazione, della mutazione. Non si oppone, non resiste, non si fossilizza in una struttura rigida: cambia, si adatta, si dissolve e si riforma in nuove configurazioni, si frantuma e si ricompone in nuove disposizioni.

L’uomo, invece, si è legato a un’immagine fissa di sé stesso, a una costruzione che non può sostenere il peso della realtà. Egli crede di essere eterno, ma è già svanito. Crede di essere centrale, ma è solo un fenomeno passeggero. Crede di essere necessario, ma la sua assenza non altererà in alcun modo il respiro dell’universo.

L’uomo lotta per conservare il proprio riflesso, erige monumenti, archivia il proprio passaggio con tecnologie sempre più sofisticate, incapace di accettare che la memoria è solo una diga di sabbia contro l’onda inarrestabile dell’entropia. Hard disk, biblioteche, data center: tutto destinato alla polvere, alla radiazione termica di fondo, all’annullamento. Ciò che resiste non è ciò che si fissa, ma ciò che muta.

E l’uomo non muta: si cristallizza in un’identità fittizia, un’illusione di durata.

«Ogni memoria che l’uomo tenta di preservare è un’orma sulla sabbia davanti alla marea: si illude di fissare, di trattenere, di salvare. Ma la risacca dell’entropia non contempla eccezioni».
 
E così, mentre l’uomo scompare, il serpente resta.

Non come simbolo. Non come mito. Ma come ciò che si piega senza spezzarsi, ciò che muta senza temere la dissoluzione. Ciò che accetta la fine senza doverla raccontare.