“Nobody knows the trouble I’ve seen, nobody knows but Jesus…, cantava Louis “Satchmo” Armstrong in uno struggente brano spiritual, carico di atmosfere ancora in essere all’uscita del disco ( già una cover nel 1962), visioni di sguardi cotti di fatica sui campi di cotone, segregazione, lotta, e poi film da far piangere le pietre come “Specchio della vita”(1959), Rosa Parks che siede nel posto dei bianchi nel bus, Martin Luther King, Malcom X, Pantere nere,  Radici e Kunta Kinte, Mississipi Burning e chi più ne ha.

La prima volta che andai ad Harlem fu tanto tempo fa, eravamo in comitiva su un bus e ci presero a sassate. La seconda, qualche anno dopo, ci facemmo scortare da un brasiliano pratico della zona; la terza,  e siamo agli anni duemila, tutto stava cambiando ma…allorché, era il 2011, si cercò di entrare in una chiesa protestante, consigliatissima dalle guide mondiali, per vedere finalmente questa tanto osannata messa gospel, tra un andirivieni di prosperose ragazze in microgonna, fummo cacciati perché bianchi; e dirottati, nemmeno molto con le buone, presso una parrocchia cattolica, dove si svolgeva una messa che di apostolico romano non aveva nulla: nuovamente canti e balli, sia pur col crocifisso in mano, pastore ( pardon, sacerdote) roboante, cori ben poco fedeli alla tradizione conciliare, due ore di allucinata esaltazione. In California, un tassista jewish, simpatizzante per noi italiani, ci confessò che se n’era andato dal Texas a causa dei troppi “nigger”. Nei film o fiction d’oltreoceano, un viso nippo è infilato sempre in qualche laboratorio. Le coppie di amanti non devono essere discromatiche. Se accade, è per caso o provoca problemi, quando in realtà il mélange va avanti da almeno un secolo.

E dunque, il razzismo è ancora una realtà? Più negli USA che altrove? Dobbiamo preoccuparci per loro, guardare a casa nostra, infischiarcene? La terza opzione non è male, ma non è agevolata dagli algoritmi del politically correct, moderno vangelo su cui infuriano le polemiche. In questo impasse, pochi si accorgono di essere stati ficcati nel sistema binario, di qui o di là, black o white: e il resto del mondo? Come ragionano in Asia, si amano thailandesi e coreani? E africani con arabi? Oppure in Brasile, il paese arcobaleno per eccellenza? E a chi importa.

Dunque ci tocca tornare negli States, il faro di tutte le speranze del futuro che è già passato, laddove gli immigrati italiani ai primi sbarchi ( e allargando poi a tutte le popolazioni latine) venivano chiamati sprezzantemente “dago” dagli afro, che li identificavano come qualcuno finalmente più in difficoltà di loro, non nero ma spesso olivastro, generando una divaricazione che ancora dura tra gli oriundi colà insediati da qualche generazione; dove Spike e Denzel sul versante serioso e Will Smith a cavallo tra musica e film hanno forgiato un immagine alternativa, un modello cui il loro connazionale di ( più o meno) pari tinta dovrebbe uniformarsi; e se un teppista è coloured, guarda il caso viene acciuffato sempre da un poliziotto biancone, grosso e feroce, eppure da quel dì in polizia le etnie sono tutte rappresentate, in ossequio alle quote di legge. Chissà se qualcuno ricorda che Jesse Owens smentì sempre l’aneddoto secondo cui Adolfo rifiutò di stringergli la mano dopo il trionfo olimpico del 1936: sono tutte leggende, sono realtà manomesse, possiamo più riconoscere un filo di verità dietro la tela di ragno?

E così, cammin facendo, è finita che laggiù gli ispanici hanno effettuato quasi il sorpasso, lo spagnolo è seconda lingua, ma ancora nessuno se li fila: dove sono, costoro, nelle rappresentazioni mediatiche? Stiamo ancora al “mangiafagioli”, per caso?

Sarà difficile uscire da queste rapide, dove ci ha ficcato qualcuno chissà quando, sappiamo grosso modo come, immaginiamo il perché: divide et impera.